Città (vicine)
In una parola Alberto Leiss
In una parola Alberto Leiss
In principio era Simone Weil, negli ultimi anni della sua vita a Londra: stretta dalla tragedia della guerra, del nazifascismo, e dello stalinismo, immaginava una nuova costituzione per l’Europa futura. Radicalmente altra cosa rispetto alle forme conosciute – e fallite – della politica europea. «Al di sopra delle istituzioni – scriveva – destinate a tutelare il diritto, le persone, le libertà democratiche, bisogna inventarne altre, destinate a discernere e a eliminare tutto ciò che nella vita contemporanea schiaccia le anime sotto il peso dell’ingiustizia, della menzogna, della bassezza. Bisogna inventarle, perché sono sconosciute, ed è impossibile dubitare che siano indispensabili».
Non siamo nell’abisso degli anni ’40, ma non mancano orrori, ingiustizie e menzogne nella crisi che forse travolge il progetto dell’Europa unita. E le Città vicine – realtà politica di donne, femministe, e alcuni uomini che «facendo leva su propri desideri aprono spazi di libertà e bellezza nelle loro città» – ripartono da quelle parole per chiedersi come reagire alla crisi attuale.
Una crisi – ha detto Simonetta Patanè aprendo un convegno domenica alla Casa internazionale delle donne di Roma– che ha due volti. Uno è quello – evidente – del potere politico, tecnocratico e economico che produce vite sempre più difficili, precarietà, meno diritti, violenza, muri. Ma l’altro è quello – poco visto – delle mille esperienze di accoglienza verso gli immigrati, di solidarietà, di «capacità generativa» di altri modi di fare economia, di tessere relazioni di cura. Queste realtà in tante città italiane e europee, forse sono già un embrione di quelle «istituzioni sconosciute» evocate dalla Weil. E’ necessario però un salto simbolico perché si superino i limiti di un «volontariato supplente», o all’opposto di un «antagonismo» velleitario che sono presenti nelle culture di chi agisce in questa «altra Europa», e si apra un conflitto politico capace di assumere valore «costituente». In uno spazio europeo che non ha ancora un assetto sovranazionale definito.
Anche il fronte del potere dominante è in divenire. Le scelte di Obama – ha osservato Loredana Aldegheri (Mag di Verona) – non sono quelle dell’austerità alla tedesca, e se pure troppo tardivamente, la Bce invoca investimenti pubblici. Maria Concetta Sala – studiosa della Weil – si è chiesta se la crisi non possa anche significare un progressivo venir meno della logica stessa del potere.
Questo presupporrebbe una presa di coscienza soprattutto maschile (il potere resta essenzialmente maschio) di cui si vedono pochi segni. E tuttavia – ha detto Rosetta Stella, suscitando anche qualche contestazione nella sala, quasi interamente femminile – bisogna «saper riconoscere gli uomini giusti e gli uomini veri».
Certo dopo i «fatti di Colonia» è diventato sempre più evidente che l’«emergenza» dei rifugiati è fatta di corpi sessuati, e di differenze culturali. Anche se – ha osservato Loretta Napoleoni – le persone vengono azzerate nei grandi numeri, e l’Europa si chiude impaurita mentre l’Ocse calcola che saranno invece necessari 17 milioni di immigrati entro il 2050.
Ci si può chiedere – lo ha fatto Letizia Paolozzi – se non sia meglio favorire l’ingresso dei maschi che stanno con mogli, compagne, sorelle (come già in Canada). E soprattutto bisogna imparare la nuova lingua parlata da immagini come quella del padre che fa passare il figlio sotto il filo spinato (che ha vinto il World Press Photo), e dai volti e dalle vite dei giovani uccisi al Bataclan, mosaico dell’Europa che desideriamo.
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