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Rubriche

Ciro di Pers e Franco Fortini

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti
Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 25 novembre 2022

Parafraso due sonetti di Ciro di Pers (1599-1663). Si intitolano: L’autore è travagliato dal mal di pietra in età d’anni sessanta e Travagliato l’autore da mal di pietra. Premetto queste righe di Giuseppe Guido Ferrero che, nell’antologia Marino e i Marinisti, presentando la poesia di Ciro, tra l’altro scrive: «Più schietto poeta egli è proprio nelle rime argute e immaginose, al modo del Marino; e anche in certi versi facili e piani, di gusto quasi popolareggiante. Acutamente sentì la vanità del vivere, la miseria «dell’umana grandezza; contemplò con occhio accorato la vecchiezza che deturpa e devasta; meditò, con senso di squallida rassegnazione, sulla morte imminente e sulla tomba: temi vitali della poesia barocca. Ha tratti di concitazione drammatica e appassionato fervore. Sparsamente, accenti preromantici».

Nel primo sonetto, L’autore è travagliato dal mal di pietra in età d’anni sessanta, Ciro ci dice che la sua poesia non è quella di Orfeo, che col suo canto rendeva sensibili i sassi; e nemmeno è quella di Anfione, tanto meravigliosa che le pietre alle sue armonie, spontaneamente collocandosi le une sulle altre, formarono le mura di Tebe. Pure, anche la sua poesia sembra dar anima ai sassi: sono quelli, numerosi, che la morte, quasi frecce, ha raccolto nella sua letale faretra. Impossibile scalfire tanta durezza, conviene al poeta far un computo a saldo di quanto ha dato e ricevuto nel corso della vita e sottostare alla dura sentenza scolpita nella pietra. Quella antica Medusa i cui occhi avevano il potere di convertire in sassi quelli che la guardavano, ecco che si è data a trasformargli in pietra «l’interne parti», e più che induriscono meno durevole sarà il tempo che resta alla vita della sua ispirazione. Teme ad ogni passo di inciampare in un ciottolo dell’impervio cammino che gli resta, finché, prevede, «entro alla tomba oscura/mi farà traboccar l’urto d’un sasso».

Il secondo sonetto, Travagliato l’autore da mal di pietra, Ciro apre chiedendosi come abbiano ormai un termine segnato i suoi giorni se nelle reni si fanno ognora più gravi e molesti i danni recati da quelle pietre. E continua: «S’altri (allude a Marziale e a Persio) con bianche pietre i dí beati/nota, io noto con esse i dí funesti;/servono i sassi a fabricar, ma questi/per distrugger la fabrica son nati./Ah, ben posso chiamar mia sorte dura/s’ella è di pietra! Ha preso a lapidarmi/da le parti di dentro la natura./So che su queste pietre arrota l’armi/la morte e che a formar la sepoltura/ne le viscere mie nascono i marmi».

Annoto alcuni spunti. Li do di seguito, rapide note di lettura a margine. È il corpo l’argomento di Ciro. Il suo corpo malato. Il poeta non illustra nei modi di un referto la patologia che lo ha colpito. Non i sintomi dunque, e non i decorsi dolorosi che comportano. Il travaglio è relegato nei due titoli, in limine: «travagliato l’autore, l’autore è travagliato».

Non il dolore o lo spasimo assurgono a dar forma al costrutto poetico dei due componimenti come, invece, avviene nel caso di Franco Fortini in Composita solvantur (1994): «Se volessi un’altra volta queste minime parole/sulla carta allineare (sulla carta che non duole)/ il dolore che le ossa già comportano/si farebbe troppo acuto (…) non ho tendine né osso/che non dica in nota acuta: ‘Più non posso’./Grande fosforo imperiale, fanne cenere». Che ogni edificazione si disintegri, si dissolva nel nulla senza nome. Non c’è parola per il dolore, c’è semmai vaniloquio, farneticazione, alterazione mentale. Ciro, al contrario non invoca un disfarsi. Concepisce nella mente una figurazione del formarsi, fantastica l’incedere inarrestabile d’una metafisica metamorfosi germinata dal suo corpo. Esso ospita la pietra («ne le viscere mie nascono i marmi») che pur, del corpo, nel «distrugger la fabrica», realizza tuttavia una costruzione nuova: «D’impietrirmi ha cura/l’interne parti». Un farsi del me sasso procede allora ad opera di Medusa dice Ciro che, con l’evocazione della energia poetica di Orfeo e di Anfione, attesta la forza figurale del mito. Possanza che non si disperde: sta, fonte imperitura di consapevolezza, a conferire umano senso alla nostra vita e alla nostra morte.

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