Essere l’altro. Più che una rivendicazione, la scelta di affermare uno sguardo – e un gesto – sul mondo. Le parole con cui la filmmaker e artista americana Deborah Stratman ha presentato la sua Carte blanche riassumono le urgenze che attraversano la proposta di Cinéma du Réel, il festival del documentario che si chiude domani a Parigi. Un’edizione questa che oltre al problema «strutturale», la chiusura per i prossimi cinque anni del Centre Pompidou, sua storica sede, prevista alla fine di quest’anno, è chiamata a un confronto con un reale che nella sua rappresentazione si fa sempre più complesso, ai cui interrogativi è chiamata l’esigenza di uno sguardo che sia insieme formale e politico.

“Far from Michigan” di Silva Khnkanosian

È QUESTA LA SCOMMESSA dell’edizione 2024, nella Francia di Macron insoddisfatta e inquieta, preoccupata in vista delle prossime elezioni europee di scoprirsi più a destra del previsto come è accaduto oltralpe in Italia – ieri la premier Meloni campeggiava sulla copertina del quotidiano «Libération»: «Meloni coté pile, cote faf» per dire di una strategia che rassicura la politica estera per meglio controllare quella nazionale, che potrebbe risultare vincente anche qui. E dove, come in molti altri paesi europei, il genocidio in corso a Gaza è al centro della discussione pubblica fra il sostegno a Israele, una resistenza per il cessate il fuoco, una memoria attiva che guarda certo al presente ma non dimentica una storia fatta di violenze e di devastazioni, come suggerisce il titolo del film di Avi Mograbi che sarà proiettato oggi, I primi 54 anni – Manuale abbreviato dell’occupazione militare, che costruisce la propria critica su quanto è adesso in corso liberandola da ambiguità. «Oltre l’attualità di questi giorni, ciò che sta succedendo a Gaza riconfigura la nostra lettura del presente, delle relazioni umane, del rapporto col mondo» si legge nelle note scritte dalla direttrice del festival, Catherine Bizern. Gaza è dunque un punto di partenza per entrare nella realtà in cui viviamo, e confrontarsi con un pensiero contemporaneo che cerca nuove letture su colonialismo e decolonizzazione, così come le battaglie del femminismo negli anni e in diverse declinazioni. Tutto ciò si intreccia nel programma, scommessa è renderlo vitale, presentarlo come discussione e possibilità non come dogma, senza stigmatizzare e soprattutto nella relazione fertile fra esperienze passate e attualità.

La redazione consiglia:
Esodi e sopraffazioni, undici parabole degli Stati unitiNei suoi accostamenti Stratman – che sarà protagonista dalla prossima settimana di una retrospettiva al Jeu De Paume – unisce i film di Barbara Hammer, pioniera del cinema lesbico che nei suoi film, come vediamo in Vever (For Barbara), interroga il senso delle sue immagini, nel caso specifico girate in Guatemala nel 1975 durante nel un viaggio per fuggire a un’amante che la faceva soffrire. L’archivio è poi divenuto un lavoro collettivo, visto che Hammer era ormai troppo malata per lavorarci e aveva dato i finanziamenti ottenuti per un altro progetto a artiste amiche, come Stratman, che avrebbero dovuto finirlo. Montandole con la voce di Hammer, una conversazione al telefono registrata, Stratman amplifica la cifra della ricerca condivisa con altre suggestioni di artiste donne, come Maya Deren – di cui ha presentato nello stesso programma Meshes of the Afternoon – a sottolineare quella traccia comune di una sperimentazione che dichiara un modo di essere e scrive anche una «herstory». Del resto proprio Deren era stata la sola cineasta che Hammer aveva trovato citata nelle storie del cinema durante i suoi studi. E sempre di Hammer Double Strenght narra una storia di amore e di corpi femminili – in Female Closet (1998) la regista aveva illuminato le pratiche di oscuramento messe in atto dalle grandi istituzioni dell’arte riguardo alla sessualità di figure come la fotografa Alice Austen, la dadaista Hannah Höch o la pittrice Nicole Eisenman.

IL VOLTO di donna nella sequenza finale di Far from Michigan, il bel film di Silva Khnkanosian – nella sezione Front(s) Populaire(s) dove più esplicitamente ci si chiede «Cosa può oggi il cinema?» – racchiude il sentimento di una guerra, di un esilio forzato, della perdita di un’esistenza. Davanti alla casa in fiamme, per non lasciarla al nemico, un cespuglio di rose fiorisce rigoglioso, quasi sfacciato restando lì, testimone silente di un dolore e della sua rabbia. Far from Michigan è stato realizzato durante il conflitto del Nagorno-Karabakh, Khnkanosian, appena ventenne, è partita con la sua camera nonostante il parere contrario della madre, e ha filmato: le strade deserte dei villaggi, le attese nei rifugi, le tavolate apparecchiate e lasciate col cibo neppure toccato sui piatti perché l’esercito azero iniziava a bombardare la sera. I rifugi dove la gente, donne per lo più, ragazzini e anziani, cucinano, parlano, vogliono credere alla vittoria aspettando con ansia le telefonate di chi è al fronte. E l’abbandono rapido delle case alla fine del conflitto, animali, oggetti, pezzi di vissuto stipati sui camion per ignote e incerte destinazioni. Cosa accadrà lì ora? Come sarà quella geografia decisa dalle armi?

“Americium” di Théodora Barat

INTANTO NEL DESERTO del Negev le donne di un collettivo palestinese raccolgono le testimonianze filmate da altre donne di violenze e espulsioni dell’esercito israeliano: la telecamera le fa sentire finalmente più forti, l’archivio delle loro esperienze si fa condiviso, rimane e viene tramandato – lo racconta Daniel Mann nel suo film in concorso, Under a Blue Sun, una cartografia nel deserto che conserva in sé le tracce di una memoria cancellata con ogni mezzo dallo stato israeliano, il cui segno ricorrente è la sopraffazione e che i più invece connettono a un Rambo girato con Stallone lì. Una mitologia che lo ha trasformato nell’Afghanistan.

La redazione consiglia:
«Cinéma du Reel», le immagini del mondo in lotta«Che fine ha fatto la sinistra italiana?» ha chiesto un ragazzo dal pubblico nella bella discussione con Leonardo Di Costanzo alla fine di Prove di stato – di cui è stata presentata la copia restaurata. Era il 1995 quando Luisa Bossa veniva eletta sindaca di Ercolano, in una coalizione di centro-sinistra, dove il precedente consiglio comunale era stato sciolto per infiltrazioni della camorra. Di Costanzo la segue per oltre un anno nella sua battaglia per ripristinare uno stato di diritto, delle regole democratiche – dalla soppressione dei taxi senza licenza all’assegnazione delle case popolari. «Il punto è forse chiedersi che fine ha fatto ovunque in Europa» ha replicato il regista. Nella sua «documentazione» di un’esperienza quel fare cinema nel quotidiano non solo restituisce un momento di storia italiana – utile prospettiva per meglio comprendere l’oggi – ma ci offre una pista possibile di narrazione delle immagini, un essere cinema che si allena nel corpo a corpo discreto con ciò che lo circonda.

UN PO’ L’OPPOSTO della via scelta in Americium da Théodora Barat, che si pone nei grandiosi paesaggi del Nuovo Messico, dove ogni cartello, museo e monumento costruito in mezzo al deserto ricorda la storia delle armi nucleari americane. A partire da questa consapevolezza l’artista pone la sua macchina da presa, con la falsa neutralità di un film scientifico. Girato in fotogrammi (che ricordano il lavoro paesaggistico di James Benning, uno degli ospiti d’onore del festival), il film mostra paesaggi dove i turisti si affollano spensierati, posando sui luoghi dei primi test atomici o raccogliendo sassolini che sperano siano radioattivi. In contrappunto, due donne raccontano generazioni di antenati indiani sacrificati all’estrazione dell’uranio, avvelenati alla nascita e decimati dal cancro. Esplorando la mitologia di un massacro, Americium costruisce un contrappunto a Oppenheimer di Christopher Nolan. Ma, appunto, è sempre questione di prospettive.