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Che fine ha fatto l’indagine sierologica nazionale?

Che fine ha fatto l’indagine sierologica nazionale? – LaPresse

All’importante ricerca ha risposto solo la metà del campione. Colpa dei ritardi e non solo. Ma le strutture che offrivano test a pagamento sono state sommerse dalle richieste

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 21 luglio 2020

Il 23 maggio l’Istat e il ministero della salute avevano annunciato l’avvio dell’indagine nazionale di sieroprevalenza. Si trattava di sottoporre a test sierologico un campione di 150 mila residenti rappresentativo della popolazione intera. L’obiettivo dell’indagine era individuare la percentuale reale delle persone entrate in contatto con il nuovo coronavirus. L’indagine si è conclusa il 15 luglio ma con un risultato piuttosto deludente: solo 75 mila interpellati, il 50% del campione, ha dato la sua disponibilità a sottoporsi al test.

I POCHI DATI RACCOLTI verranno comunque analizzati. Ma sulla loro utilità ora dubitano in molti. Le stime statistiche che si possono trarre da un campione ridotto sono meno accurate, come sanno bene gli esperti di sondaggi. Il rifiuto di molti cittadini è stato dettato dal timore di tornare in quarantena in caso di risultato positivo a cui sarebbe seguito il tampone, un timore più forte in alcune categorie della popolazione. E questo sbilancia la capacità del campione di rappresentare tutte le fasce sociali.

Con queste premesse, diventa difficile stimare con sufficiente precisione quante persone sono state contagiate, un obiettivo a cui erano stati destinati circa quattro milioni di euro. Si stima che gli infetti siano molti più dei 244 mila casi registrati dai tamponi. Secondo gli epidemiologi potrebbero essere da cinque volte a venti volte tanto. La parte mancante non è dovuta tanto ai ritardi nei tamponi da parte delle regioni, quanto alla quota di persone con sintomi lievi che non si rivolgono ai medici, certamente molto elevata.

AL DI LÀ DEL DATO STATISTICO, l’informazione sarebbe stata decisiva per valutare la mortalità reale del Covid-19. Inoltre, avrebbe permesso di differenziare il rischio di contagio per età, genere, status socio-economico: un’informazione preziosissima, basti pensare a tutte le incognite che pesano sulla riapertura delle scuole.

CHE LA RISPOSTA dei cittadini fosse il problema principale da superare, era prevedibile e previsto. Lo sottolineava lo stesso protocollo metodologico allegato al decreto del 10 maggio che avviava l’indagine: «Le determinazioni da assumere devono fare in modo che problemi di rispondenza, se esistenti, siano ridotti al minimo per evitare distorsioni». Per rimediare, il campione prevedeva circa cinquantamila “sostituzioni”, cittadini da contattare in caso di rinunce. Ma non sono bastate.

EVIDENTEMENTE NON È riuscita l’operazione di «rendere l’opinione pubblica consapevole della importanza della indagine è una condizione fondamentale per la riuscita della operazione», altro obiettivo messo nero su bianco nel protocollo. Istat e ministero della salute avevano annunciato «una campagna di comunicazione integrata e congiunta sia a livello nazionale, sia a livello territoriale» per «sostenere l’indagine per l’intero periodo».

Non solo spot pubblicitari: la campagna avrebbe coinvolto «medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, farmacie, amministratori locali, policy maker, associazioni, stakeholders» chiamati ad essere «testimoni ed ambasciatori della indagine sostenendone pubblicamente l’importanza per la collettività». Invece il ministero ha trovato scarsa collaborazione.

PER IRONIA DELLA SORTE, mentre l’indagine nazionale faticava a trovare persone disponibili al test, le strutture pubbliche e private che hanno offerto esami sierologici a pagamento sono state sommerse dalle richieste. Il numero di persone esaminate privatamente alla fine è decisamente superiore a quello coinvolto dall’indagine di Istat e ministero della salute, ma si tratta di dati inutilizzabili ai fini statistici.

SUL DESTINO DI UNA RICERCA così strategica hanno certamente pesato i ritardi dell’avvio: se fosse partita in aprile, con le persone a casa durante il lockdown, è probabile che l’adesione sarebbe stata massiccia. Al ministero, però, non dipingono l’indagine come un fallimento. «L’adesione italiana è stata la più alta in Europa», racconta chi ha seguito passo passo l’organizzazione dell’indagine. «In Spagna non si è andati oltre i 68 mila residenti, in Germania sono fermi a 30 mila. Anche in Italia i risultati non sono stati gli stessi in tutte le regioni». Certo, durante il lockdown si sarebbero raccolti più dati. Ma, si sottolinea al ministero, organizzare un’indagine nazionale ha le sue complessità burocratiche. Bisognava trovare test abbastanza accurati, disegnare il campione, ottenere le autorizzazioni per la privacy, organizzarsi con le regioni che nel frattempo avevano avviato le loro indagini sierologiche. Una sovrapposizione dei ruoli che non ha aiutato la comunicazione.

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