È piuttosto raro che libri fondamentali ma esorbitanti dalle mode o da filoni recuperati e rilanciati da particolari editori (come numerosi testi antropologici citati da Edgar Morin ne L’uomo e la morte nel 1951 e ripubblicati, in questi anni, da Adelphi) giungano a una nuova edizione dopo più di mezzo secolo, ed è quindi con grande ammirazione che ho salutato la ripubblicazione da parte de Il Saggiatore di un testo cardinale del pensiero del Novecento come L’immaginazione sociologica di Charles Wright Mills, che era uscito nel 1959 e che viene ora ripoposto da il Saggiatore.

È degno di nota anche che l’evento non sia dipeso né da un anniversario né da qualche congiuntura favorevole al rilancio del libro. Vero è che Zygmunt Bauman ne ha sottolineato il valore e la forza dirompente nel suo ultimo libro La scienza della libertà, ma le due opere sono uscite di recente in Italia quasi in contemporanea e quindi si può escludere qualunque influenza che non fosse la pregnanza del testo di Wright Mills in sé e per sé.

Cercherò quindi di spiegare perché la riedizione sia preziosa e utile per i lettori di oggi e quali ne siano le motivazioni.

Innanzitutto si tratta di un libro intenso e appassionato di uno «scienziato sociale» che già allora coglieva per un verso la missione fondamentale della sociologia, poiché «non si può comprendere la vita dei singoli se non si comprende quella della società, e viceversa», l’allargamento di prospettiva che sarebbe stato reso esplicito dalla globalizzazione allora solo in nuce («la storia che incide oggi su ogni uomo è storia mondiale»), e i rischi di tradimento della missione dei sociologi che sono oggi sempre più inclini a barattare la nobiltà del compito di allargare la consapevolezza della verità e della ragione al più vasto numero possibile di persone con i trenta denari di un avanzamento di carriera, dell’immissione nei circuiti finanziariamente proficui delle fondazioni o delle consulenze pagate dai potenti, o semplicemente con la rassicurazione di uno status tanto più solido quanto più sterile offerto dall’autoreferenzialità, dal dialogo tra «pari» in un gergo per iniziati, nella dimensione aridamente «scientifica» dei teorici che discutono fra di loro della gente comune dimenticando che sarebbe loro dovere parlare proprio alla gente comune per migliorare la loro condizione.

Wright Mills, morto a soli 46 anni, è stato una delle voci più critiche delle componenti artefatte e illusorie della democrazia del suo Paese: «Gli Stati Uniti di oggi sono democratici essenzialmente nella forma e nella retorica dell’aspettativa. Nella sostanza e nella pratica sono molto spesso non democratici, e ciò appare in modo chiarissimo in determinati campi. L’economia delle grandi società non è gestita né sotto forma di assemblee di cittadini né mediante un complesso di poteri responsabili verso coloro che subiscono direttamente le conseguenze della loro attività. Lo stesso può dirsi sempre più per la macchina militare e per lo stato politico». Non era ottimista riguardo alle probabilità che i sociologi potessero «salvare il mondo» ma riteneva che, dato che comunque potrebbe essere possibile riuscirvi, essi avessero in ogni caso il dovere di tentare l’impresa di «risistemare gli affari umani secondo gli ideali di libertà e di ragione».

Ma soprattutto era capace di «antivedere» alcune problematiche allora inimmaginabili, in un tempo che riponeva una fiducia senza riserve nella tecnica di cui si coglievano unicamente le valenze salvifiche: «Non dobbiamo forse, nella nostra epoca, prepararci alla possibilità che la mente umana, come fatto sociale, si deteriori qualitativamente e si abbassi ad un livello culturale inferiore, senza che molti se ne accorgano, sopraffatti come siamo dalla massa delle piccole invenzioni tecnologiche? Non è forse questo uno dei significati della frase “razionalità senza ragione”? Del termine “alienazione umana”? (…)L’accumularsi degli espedienti tecnologici nasconde questo significato: coloro che se ne servono, non li capiscono; coloro che li inventano, non comprendono molto di più. Ecco perché non possiamo, se non con molti dubbi e riserve, prendere l’abbondanza tecnologica come indice di qualità umana e di progresso culturale».

La sociologia, per seguire la propria vocazione, deve alzare lo sguardo oltre la «riserva» del proprio territorio e interessarsi alle altre scienze umane: la storia («per molti problemi (…) possiamo ottenere informazioni adeguate soltanto nel passato»), la psicanalisi («Il prossimo passo degli studi psicanalitici sarà di fare largamente e pienamente per le altre zone istituzionali ciò che Freud ha cominciato a fare così splendidamente per le istituzioni di parentado di un tipo scelto») e naturalmente il cinema, l’arte, la letteratura eccetera. Basti pensare che fra il 1940 e il 1950 aveva letto l’opera omnia di Balzac («ed ero stato profondamente colpito dal fatto che si fosse assunto volontariamente il compito di “coprire” tutte le principali classi e tutti i principali tipi della società dell’epoca che voleva far propria».

Forse l’epitome più fedele e acuta di Wright Mills è stata data proprio da Bauman ne La scienza della libertà: «distinse autorevolmente l’immaginazione sociologica dalla sociologia e mostrò come la pratica di quest’ultima non abbia alcuna necessaria connessione con la prima. Wright Mills fornì argomenti irrefutabili a sostegno del perseguimento di un’immaginazione sociologica che cercasse di imbastire una conversazione con le donne e gli uomini (per) mostrare come i “guai personali” siano inestricabilmente legati a “questioni pubbliche”. L’immaginazione sociologica rende ciò che è personale politico [(E), al pari della narrativa e del giornalismo, rende possibile lo sviluppo di una “qualità della mente” che permette alle donne e agli uomini di capire e raccontare ciò che accade loro, ciò che sentono e ciò a cui aspirano».