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C’è una violenza anche mediatica

C’è una violenza anche mediatica

Femminicidi La «colpa»che viene addossata alla donna in tutta la cultura greco romano cristiana è di indebolire lo spirito dell’uomo, il che sembra giustificare il fatto che la punizione, sotto questo aspetto «meritata», possa essere addirittura la morte

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 1 ottobre 2019

Non è la prima volta che un caso di femminicidio viene raccontato dai media sotto il profilo di una relazione amorosa finita tragicamente, e come risposta impulsiva e violenta dell’uomo a una «provocazione»da parte di una fidanzata, moglie o ex-moglie o amante.

Ma l’articolo uscito il 25 settembre su HuffPost a proposito dell’omicidio di Charlotte Yapi Akassi è come se avesse fatto da detonatore rispetto a qualcosa che abbiamo sempre saputo, e che tuttavia non si lascia afferrare con la consapevolezza e l’attenzione che merita. Due sono i passaggi che hanno avuto l’effetto di uno svelamento: la confessione dell’aggressore, Carmelo Fiore, che ha tentato a sua volta di uccidersi – «Mi ha deriso» -, e la riflessione conclusiva di chi scrive – «Ora i carabinieri stanno cercando di scavare nella vita della ragazza per cercare di capire le dinamiche che hanno portato l’uomo a spezzarle la vita».

In modo più esplicito che in altri resoconti giornalistici, la causa scatenante della violenza viene qui ricondotta al comportamento della vittima, a ragioni psicologiche che sembrano fatte per scagionare l’uomo. Più o meno scoperte o “da scavare” nella vita della donna uccisa, le “dinamiche”che possono averlo fatto uscire di sé fino a dare la morte sono sempre le stesse: amanti che «inducono» possessività e gelosia, mogli che decidono di separarsi, fidanzate che si permettono, tanto più se di «culture altre» come in questo caso, una qualche «irrisione».

Il ruolo non è indifferente: al ruolo, assegnato da una storia maschile millenaria all’altro sesso, sono legate aspettative, doveri, adeguamento a valori e gerarchie di potere trasmesse da una generazione all’altra e interiorizzate come leggi «naturali».

A ciò si aggiunge una copertura ideologica con radici ancora più profonde, ma diventate il fondamento del senso comune e della cultura alta: la donna vista come corpo, sessualità incarnata dell’uomo, oggetto e al medesimo tempo tentatrice del suo desiderio.

Non si tratta di negare i sentimenti, le passioni, le fantasie di cui è fatta la vita intima, ma quello che stupisce è che si possano ancora ignorare i rapporti di potere che l’attraversano, fermare l’attenzione su chi la violenza la subisce e non su chi la fa, non vedere le contraddizioni di una storia che ha considerato la donna una maledizione e una salvezza, una generatrice di vita e, al medesimo tempo, di istinti di morte. Il sessismo resta una evidenza invisibile, purtroppo non solo per l’informazione e il racconto dei media. Eppure è chiaro, in quella confessione terribile nella sua banalità – «Mi ha deriso» – che gli uomini possono arrivare a uccidere una donna perché feriti in quell’ idea di virilità che li ha visti da sempre eredi di un potere, di una superiore umanità, della dedizione di una donna, dell’uso del suo corpo, del sostegno delle sue cure.

La «colpa»che viene addossata alla donna in tutta la cultura greco romano cristiana è di indebolire lo spirito dell’uomo, il che sembra giustificare il fatto che la punizione, sotto questo aspetto «meritata», possa essere addirittura la morte. Nel romanzo di Musil, L’uomo senza qualità, Moosbrugger, l’omicida sessuale, uccide «le femmine ridacchianti», le prostitute, perché mettono in pericolo «i leali discorsi di un uomo serio».

La «maledizione femminile» può capovolgersi in missione salvifica solo se la donna accetterà di diventare «mezzo» di una «grande opera altrui»: la lotta per dire «sì» a Dio, come nella Mulieris dignitatem di Wojtyla, o se si asterrà dalle sue intenzioni immorali verso di lui, «rinunciando al coito interiormente e lealmente di propria volontà», come in quella summa della Ragione classica che è Sesso e carattere di Otto Weininger, uscita all’alba del ‘900, quando cominciava a prendere rilevanza l’emancipazione femminile.

Perché meravigliarsi della “narrazione tossica” dei giornali, quando i saperi e i linguaggi che trasmette la scuola parlano, sia pure in modo aulico e autorevole, la stessa lingua? Perché non stupirsi del silenzio di tanti psicanalisti, psichiatri, psicologi, di fronte all’uso rozzo e deviante di un sapere nato per liberare da pregiudizi, residui arcaici di barbarie, come il sessismo, il razzismo e lo sfruttamento in tutte le sue forme? «Scavare nelle vite», nelle storie personali, partire dai corpi e dalla memoria che vi si è depositata inconsapevolmente, è stata la pratica con cui, attraverso il femminismo, è arrivata sulla scena pubblica un’altra idea di cultura, di storia e di politica.

Sullo scarto tra la femminilità tradizionalmente intesa e le donne reali, sulla ricerca di una individualità femminile autonoma rispetto a modelli imposti da altri e interiorizzati, molto le donne hanno detto e scritto. Dell’ «invenzione della virilità», e delle sue ricadute spesso violente nel privato come nella vita sociale, poco ancora si sa e anche quel poco, frutto di pratiche di autocoscienza maschile, non sembra godere di grande considerazione.

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