Cara redazione del manifesto, scrivo la sera della vigilia del 25 aprile come da bambina scrivevo la lettera per Babbo Natale (e gli chiedevo la pace nel mondo). Ora di letterine non ne scrivo più, ma la pace la sogno ancora: sono più disillusa, come tante persone, più consapevole della complessità della realtà. Ho sempre vissuto l’anniversario della liberazione come un giorno da festeggiare, ma anche come un giorno in cui le lotte convergono in un momento di massima unità e condivisione e nel quale si fanno i conti con il presente.

Quando penso che il presente fa un po’ paura cerco di ricordarmi che ho ventun anni e che farmi immobilizzare dal pensiero di tutte le cose che non vanno bene nel mondo mi fa stare solo peggio. Il punto è: che fare? Quando ho saputo della proposta di fare una grande manifestazione a Milano ho provato un grande entusiasmo. Ho visto il corteo del ’94 nel noto film che la riprende, e spero che anche domani la manifestazione sarà tanto partecipata (magari senza pioggia).

A Milano le realtà giovanili sono moltissime e frammentate, e ci sono tante persone che vorrebbero fare politica ma, nonostante la vastissima scelta, non sanno da dove cominciare. Per questo mi domando cosa fare, perché sono consapevole che il 25 aprile è una ricorrenza, una festa, un incontro tra tante persone, una giornata di lotta, di manifestazione del proprio dissenso, una giornata importantissima, ma comunque solo una giornata. Domani, le persone torneranno a casa: felici o arrabbiate, leggere o col male ai piedi, fiduciose o ancora più pessimiste, soddisfatte o polemiche, e il giorno dopo tutto tornerà come prima.

La redazione consiglia:
Il mondo cambiato dai ragazzi

Allora si potrebbe cominciare a tessere. Una rete, anche piccola, che raccolga preservando la preziosissima esigenza di fare qualcosa per il mondo in chi ce l’ha ma non sa bene come agire; così iniziare a cercare di ripensare al modo comune di fare politica. Mettere da parte assemblee preimpostate, ordini del giorno e schemi ripetitivi per aprirsi a un dialogo vero tra le persone, per far emergere l’essenza della politica, ovvero la sua natura totalmente aderente all’esistenza, e non separata da essa. Forse così si può costruire qualcosa di fecondo?

A Milano ci sono anche isole fertili, ovvero dei luoghi dove c’è la possibilità di confrontarsi liberamente e quindi formarsi, ritagliarsi uno spazio e un tempo per fermarsi e pensare a sé e al mondo. Io ne ho trovata una a contatto con gli studenti ristretti del carcere di Opera, ma anche tra i banchi del liceo, con qualche professore illuminato, e con qualche amica all’università. Il mio timore è che se l’esigenza di fare politica non viene condivisa con una collettività può facilmente essere messa in secondo piano: la vita è già così piena di cose da fare, di relazioni da coltivare, di libri da leggere, di impegni e scadenze… e così il sogno di rendere il mondo un posto migliore diventa, inevitabilmente, un’utopia verso la quale non si cerca nemmeno di tendere.

Questa è l’alienazione che vedo in alcuni adulti intorno a me. Non li biasimo, anzi, li capisco, ne ho uno in casa, che finché c’era ha votato il Pci, adesso va in manifestazione solo il 25 aprile e ascoltando la radio mormora quanto stiano andando male le cose nel mondo. Per questo motivo la rete dovrebbe essere transgenerazionale, c’è bisogno di tutte e tutti, senza distinzioni di età e senza individuare autorità: ogni persona con la propria esperienza.

Non voglio pensare che siamo come una specie in estinzione, tuttavia bisogna che ci preserviamo, bisogna partire da noi, dare importanza al «noi». Oltre che, ovviamente, preservare i valori dell’antifascismo. Così, magari, intrecciando fili diversi, nel rispetto della varietà e nella consapevolezza che essa è irriducibile, potremo far fiorire qualcosa, coinvolgere altre e altri. Per caso è un’idea folle? Buon 25 aprile.

La risposta del direttore 

Cara Laura, ho aperto la tua mail la mattina del 25 aprile e così sono andato al corteo sotto i migliori auspici, più allegro. E adesso avrei voglia di continuare il dialogo, chiedendoti: e tu come sei tornata a casa, felice o arrabbiata, leggera o col male ai piedi, fiduciosa o ancor più pessimista, soddisfatta o polemica?

Qualsiasi sia stato il tuo sentimento giovedì sera – e c’era da essere sia felici, fiduciosi e soddisfatti per quanto bella e grande è stata la manifestazione, sia arrabbiati, pessimisti e polemici per quanto gravi e cupe sono le ragioni che ci hanno portato in tanti a Milano e poi anche per come la giornata è stata mal raccontata da giornali e tv – è certamente un sentimento che ti spingerà a continuare nella tua ricerca. Perché la politica si fa per ottimismo ma anche per pessimismo, anzi a volte più per il secondo che per il primo. Io penso che non sia tanto la paura di non farcela a tenerci bloccati sulla soglia dell’impegno, ma il dubbio di non sapere come farlo.

«Che fare», difronte alla vastità dei disastri, al mondo dominato dalle disuguaglianze e con i decenni contati, alle guerre che sembrano così complesse e inaffrontabili da potersi risolvere solo invocando la pace a Babbo Natale? Tu te lo chiedi, tanti se lo sono chiesti prima di te. E con più insistenza proprio quelli che non si sono lasciati immobilizzare. Poi ti domandi anche, in pratica, «con chi farlo?». Questa risposta hai cominciato a dartela, trovando i tuoi compagni e i tuoi luoghi di intervento. La politica non può che farsi così, collocandosi in mezzo alle altre e agli altri. Perché politica non è tanto portare se stessi nelle istanze e nelle lotte, ma soprattutto è trasformare se stessi nella riflessione e nell’azione comuni.

Dunque la politica ha bisogno di quella «rete da tessere» di cui tu parli – ma io non devo spiegartelo, sto solo approfittando della tua lettera per tornare col pensiero a giovedì, e per restarci ancora un po’.

Tu lo scrivi: «Se l’esigenza di fare politica non viene condivisa con una collettività può facilmente essere messa in secondo piano, la vita è già così piena di cose da fare…». Hai ragione, solo che tra le cose da fare c’è, più interessante, cambiarle tutte. Cambiare le proprie idee anche sulle cose che dici tu, tutte irrinunciabili: leggere, studiare, coltivare le relazioni… Per come la penso io, non c’è un’idea che non possa essere affinata meglio, o rivoltata del tutto, provando a metterla in pratica insieme ad altri. Forse la sola cosa sbagliata – oppure folle – è rinunciarci, chiudendosi alla possibilità di affermare il proprio pensiero, o di mutarlo.

Cara Laura, in fondo partecipare a una manifestazione come quella del 25 aprile cos’è stato, se non una gigantesca tessitura di relazioni? Particolarmente importante, io credo, proprio in tempi come questi dove più insistente e a volte violento è l’invito alle ragazze e ai ragazzi della tua età a farsi i fatti propri e a lasciar perdere. Aver percorso un pezzetto di quel corteo chiacchierando con te (si fa per dire, non siamo riusciti a muoverci) è tra le cose più belle che ho riportato a casa.