Cultura

Carlo Lucarelli e il noir del ventennio che sfida il presente

Carlo Lucarelli e il noir del ventennio che sfida il presenteUn’illustrazione di Marco Lovisatti

L'intervista Parla lo scrittore bolognese, autore di «L’inverno più nero», Einaudi. Nel romanzo, il commissario De Luca, eroe riluttante, si confronta con un’epoca che impone chiare scelte di campo. «In un Paese che non ha fatto fino in fondo i conti con il passato, raccontare storie lontane significa misurarsi con la realtà odierna. La "metà oscura" dell’Italia è sempre quella. O quasi»

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 23 aprile 2020

«Pensava che anche se l’avesse fatto davvero un buco nel materasso e ci avesse infilato dentro la testa non sarebbe riuscito comunque a togliersi dalle orecchie il gorgogliare del sangue, l’odore di urina e di muffa dal naso, tutto quello schifo, quella paura e anche quella vergogna dallo stomaco. Che non c’era più una direzione in cui voltarsi perché quel gelo livido e marcio, quell’aria gonfia che lo soffocava, erano dappertutto, e non bastava girare lo sguardo per evitarle. Se lo sarebbe portato dentro per sempre, quell’inverno. Quell’inverno così ruvido e freddo. Cosí nero».

È nella Sperrzone di Bologna, il centro della città sorvegliato dai tedeschi in armi e popolato da una folla di sfollati costretta ad inventarsi ogni giorno qualcosa per sopravvivere, che il commissario De Luca, in forza al Nucleo Autonomo di Polizia Politica deve indagare su tre omicidi le cui cause si riveleranno ben diverse da quanto emerso dai primi indizi. Intorno, la violenza della Brigate Nere spalleggiate dalle SS, le azioni partigiane a cui partecipa anche un nuovo collega al quale il commissario guarda con sospetto ma anche con grande stima e la disperazione collettiva per le sofferenze che accompagnano, nel dicembre del 1944, l’annuncio degli ultimi selvaggi rantoli del fascismo di Salò.

In L’inverno più nero (Einaudi, pp. 312, euro 18), terzo capitolo delle indagini di De Luca, dopo il suo ritorno negli ultimi anni con Intrigo Italiano e Peccato Mortale, il commissario che ha iniziato la sua carriera durante il regime e si trova ormai inquadrato nella polizia politica della Rsi, scopre ogni giorno di più che svolgere con scrupolo le proprie indagini non è più sufficiente per tenere a bada la propria coscienza di fronte all’orrore che lo circonda.

Carlo Lucarelli

«Carta bianca» (1990), la prima indagine di De Luca, è il suo romanzo d’esordio. Ne seguirono altri due, nello spazio di qualche anno, e poi il commissario è scomparso fino al 2017. Perché era uscito di scena per tornare dopo vent’anni?
Quando ho cominciato a scrivere di De Luca avevo in mente una serie di interrogativi che avevano a che fare con la nostra Storia, il rapporto tra potere e politica, il ruolo della polizia. Poi, mentre stavo ancora lavorando a quel progetto, a Bologna è scoppiato il caso della Uno bianca. Vivevamo in una città considerata come una sorta di isola felice, anche se in realtà non lo è mai stata, e ci siamo ritrovati in un clima da Los Angeles con sparatorie e gente ammazzata per strada, e solo in seguito abbiamo scoperto che i responsabili erano poliziotti. A quel punto, ed è quello che succede con i propri personaggi, mi sono accorto che non poteva essere De Luca, che dal periodo del fascismo si era spinto al massimo fino alle elezioni del 1948, ad aiutarmi a raccontare cosa stavo accadendo. Così è nato l’ispettore Coliandro che invece viveva come me nella Bologna della Uno bianca (al tema è dedicato il romanzo Falange armata del 1993, nda). Poi è passato del tempo, sono venuti altri personaggi, altri libri, ma soprattutto ho proseguito il lavoro iniziato con De Luca attraverso la tv, con Blu notte, il programma che cercava di fare luce sui «misteri italiani», che spesso traggono origine proprio dalla stagione del fascismo. Quando, dopo circa 15 anni, ho smesso con la trasmissione, sono tornato a De Luca. Anche se quell’indagine iniziata con lui non la aveva mai interrotta davvero.

«Sono un poliziotto», De Luca ripete spesso questa frase e si considera prima di ogni altra cosa un servitore dello Stato. Alla fine di «L’inverno più nero» sembra pero iniziare ad interrogarsi. Come si può servire uno Stato che è quello del fascismo, di Salò?
Il problema con il commissario è che questa consapevolezza avrebbe dovuta raggiungerla da un pezzo. La genesi del personaggio può però aiutare a capirne meglio il profilo. Risale a quando stavo preparando la tesi in Storia contemporanea, per altro mai finita, sulle forze dell’ordine durante in fascismo. Raccoglievo materiali sull’argomento e per quel motivo sono andato a intervistare un agente che era andato pensione dal 1981 dopo fatto parte della «polizia politica» per 40 anni. Nel 1941 era entrato nell’Ovra, la polizia politica di Mussolini, e quindi arrestava gli antifascisti. Poi, dopo il 25 aprile, per le giravolte della Storia, si ritrovò addirittura nella «polizia» della Resistenza, arrestando gli ex fascisti. Quindi, proseguendo la carriera, finirà nella polizia di Scelba e arresterà gli ex partigiani. A un certo punto lo interruppi e gli chiesi: «Maresciallo, ma lei per chi vota?». Lui mi guardò malissimo e mi rispose: «Cosa c’entra, sono un poliziotto». Come a dire sono «un tecnico», come la penso non conta. Fine dell’intervista. Il commissario De Luca è nato da quell’incontro. Fosse per lui, sarebbe solo il classico poliziotto da romanzo giallo che dà la caccia agli assassini senza chiedersi troppe cose, un po’ come Poirot o Maigret. Il contesto nel quale opera, la Storia del nostro Paese, lo hanno messo però in una situazione diversa. E il punto è proprio, quand’è che uno come De Luca si guarda attorno e dice: «No, le cose non possono andare più così!». Qualcosa che riguarda lui ma a ben guardare probabilmente tutti noi, allora come oggi.

Quando il noir si misura con l’epoca nella quale si muove De Luca, viene da chiedersi come si possa indagare su un singolo omicidio mentre intorno si compiano crimini di massa, il genocidio.
Ho partecipato a molti viaggi della memoria e ho scritto un racconto ambientato ad Auschwitz dove un deportato indaga per conto dei tedeschi su un omicidio compiuto nel campo. La domanda che mi sono posto era la stessa: «Perché cercare un assassino in un mondo di assassini?». Credo si possa rispondere che ciò che fa il noir è prendere le cose che non funzionano in un determinato contesto e metterne in scena i meccanismi. Un omicidio, anche se avviene all’interno di una realtà dominata dalla violenza e l’assassinio di massa come il nazismo o il fascismo, può risultare simile a tanti altri e perciò non è tanto importante dare un nome al responsabile, quanto piuttosto raccontare, attraverso quella vicenda, cosa non funzioni in quell’ambiente, nel contesto di cui è parte. Un grande autore svizzero, Friedrich Glauser, che ha scritto anche diversi romanzi polizieschi, diceva che «il giallo è un ottimo modo per dire cose sensate».

Lei ha rimpiazzato De Luca con Coliandro per potersi misurare con quanto avveniva a Bologna negli anni 90. L’inizio di un percorso che l’avrebbe vista affrontare vicende come piazza Fontana, lo stragismo, l’omicidio di Pasolini, il G8 di Genova e molte altre pagine drammatiche della Storia nazionale. Che differenza c’è nel raccontare fatti a noi più vicini o la stagione del fascismo e della guerra?
In realtà credo non vi siano grandi differenze. Anche se, paradossalmente, è più facile guardare ad un passato lontano che ti vede meno coinvolto, perlomeno in prima persona, rispetto allo scrivere di vicende che hai vissuto o di cui hai una qualche memoria personale. Un po’ quello che succede se usi un cannocchiale girato al contrario. Dal mio punto di vista si tratta però sempre di un lavoro sul presente, nel senso che anche quando guardo al passato lo faccio cercando di cogliere le radici di quanto è accaduto in seguito. Talvolta neppure le radici, visto che ci sono figure o meccanismi che hanno attraversato la Storia del Paese restando sempre lì, apparentemente immutate e immutabili. Quando con Blu notte abbiamo affrontato la strage di piazza Fontana, ci siamo accorti che avremmo dovuto raccontare anche l’intera vicenda della strategia della tensione, via via fino alla strage di Bologna, visto che riemergevano le medesime collusioni dei responsabili con gli apparati dello Stato, i servizi cosiddetti «deviati», metodi e spesso figure che rimandavano al periodo fascista. Quello che si andava componendo davanti a noi era una sorta di mosaico, con tante tessere, alcune combacianti, altre lontane ma tutte parte di un medesimo quadro. In un Paese come il nostro che non ha mai fatto fino in fondo i conti con il passato, raccontare di vicende lontane significa sempre misurarsi con elementi che in qualche modo incidono ancora sul presente, quando non gettano un’ombra anche sul futuro. La «metà oscura» dell’Italia è sempre quella. O quasi.

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