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Carlo Ginzburg, come accertare la verità dei fatti

Carlo Ginzburg, come accertare la verità dei fattiFotogramma da «The Cameraman» di Buster Keaton, 1928

Morfologia e storia Il metodo indiziario di Carlo Ginzburg nell’èra digitale: nuova edizione per «Miti emblemi spie» (Adelphi) e «Il filo e le tracce» (Quodlibet)

Pubblicato circa un anno faEdizione del 8 ottobre 2023

In due dei saggi aggiunti da Carlo Ginzburg alla nuova edizione di Miti emblemi spie Morfologia e storia (Adelphi «Il ramo d’oro», pp. 332, € 35,00), Dante e Buster Keaton si ritrovano sorprendentemente affiancati. In un caso, l’incontro è propiziato da una scimmia. L’alchimista Capocchio, relegato nella bolgia dei falsari, definisce sé stesso «di natura buona scimia», un abile imitatore della natura (Inf. XXIX 139). Un influente interprete del Trecento, Benvenuto da Imola, osserva che Dante stesso fu un «imitatore» straordinario: nella sua opera seppe infatti rappresentare così mirabilmente «la natura degli uomini di ogni condizione» da poter essere considerato «una scimmia più nobile di chiunque altro mai» («nobilior simia, quam unquam aliquis alius»). Nel film The Cameraman (1928), la scimmia che accompagna l’operatore Buster Shannon riprende quest’ultimo mentre salva l’amata Sally dall’annegamento; se l’animale non avesse avviato la macchina da presa, la verità dei fatti non sarebbe mai stata accertata.

Imitazione, rappresentazione, produzione di copie; restituzione fedele, e talvolta involontaria, di eventi reali; creazioni dolose di falsi, finzioni poste al servizio del vero. La riflessione attorno a questi argomenti è ricorrente, nell’opera di Ginzburg. Ma nei nuovi capitoli che ridefiniscono i confini tematici di Miti emblemi spie si avverte un’inquietudine estranea alla versione più antica del libro. L’epoca contemporanea ha modificato lo statuto di documenti tradizionalmente ritenuti irripetibili: anche dipinti come il Tondo Doni di Michelangelo e le Nozze di Cana di Paolo Veronese sono stati oggetto di impressionanti riproduzioni digitali. In ultima istanza, l’unicità di una fonte è tale in virtù dell’azione più o meno consapevole di un individuo, che nella sua radicale singolarità produce tracce non replicabili, di norma, da altri.

Le discipline indiziarie, «eminentemente qualitative», studiano «casi, situazioni e documenti individuali, in quanto individuali» (così nel celebre saggio Spie. Radici di un paradigma indiziario). Da un lato ciò si oppone all’astrazione tipica delle scienze quantitative. Dall’altro determina, «attraverso la comparazione, le premesse per una generalizzazione delle domande, e delle risposte, che lo studio di un caso specifico ha fatto emergere» (citiamo ora dalla nuova postfazione, datata giugno 2023).

L’introduzione della prima edizione di Miti emblemi spie (1986) verteva soprattutto sul sottotitolo del volume, Morfologia e storia. Quale peso assumono le affinità tra miti e credenze quando non possono essere ricondotte a processi storici accertabili? È possibile confrontare tra loro documenti che hanno un carattere anomalo senza cedere alla semplificazione, o, peggio, allo scetticismo? Per meglio apprezzare le implicazioni di queste domande, e il loro rapporto con le pagine più recenti del libro, conviene prendere in considerazione un caso particolare. Nel 1691, durante un processo per furto celebrato in Livonia, un testimone di nome Peter si mostrò divertito al pensiero che un suo compaesano, noto come «il vecchio Thiess», dovesse prestare giuramento prima di fornire a sua volta una testimonianza: tutti sapevano infatti che Thiess – così si espresse l’uomo – era «un lupo mannaro». Il vecchio confermò l’accusa. Dopo un lungo interrogatorio, fu condannato a una pena relativamente mite, «venti paia» di frustate inferte davanti ai contadini della parrocchia.

Come detto, Thiess ammise di essere un lupo mannaro, ma escluse che questo implicasse un commercio diabolico. Tutto il contrario: l’imputato riferì ai giudici che i lupi mannari sono nemici del diavolo. Per tre notti all’anno, costoro si recano all’inferno per recuperare i germogli di grano rubati dagli stregoni. Se riescono a sopraffare gli avversari, alla comunità sono garantite messi abbondanti; in caso contrario, si annunciano annate cattive e carestia. I giudici ascoltarono l’uomo con sconcerto. Descrivendo i lupi mannari come protettori dei raccolti, Thiess rovesciava convinzioni antiche e consolidate.

La vicenda del lupo mannaro livone è analizzata, da punti di osservazione diversi, in due saggi inclusi in Miti emblemi spie, Mitologia germanica e nazismo (1984) e Freud, l’uomo dei lupi e i lupi mannari (’86). Nel corso degli anni, ha alimentato inoltre un affascinante dialogo scientifico tra Ginzburg e Bruce Lincoln, i cui esiti sono raccolti in un volume a due voci, pubblicato inizialmente in inglese per Chicago University Press e ora disponibile nella traduzione italiana curata da Lucio Biasiori e Cora Presezzi: Il vecchio Thiess Un lupo mannaro baltico tra caso e comparazione (Officina Libraria, pp. 319, € 27,00).

Già nel suo libro d’esordio, I benandanti (1966), Ginzburg coglieva analogie singolarissime tra le parole di Thiess e le rivelazioni fatte poco più di un secolo prima, in Friuli, da un gruppo di donne e uomini accusati di stregoneria. Anche in quel caso gli imputati, che si definivano «benandanti», negarono di essere al servizio del diavolo; dissero anzi ai giudici di contrastare i suoi emissari, gli stregoni, in periodiche battaglie notturne.

L’obiettivo era sempre lo stesso, assicurarsi la prosperità dei raccolti. Percepiti come reali dai soggetti che ne facevano esperienza, i combattimenti avvenivano «in spirito»: in più occasioni, i benandanti spiegarono che nelle notti stabilite le loro anime si separavano dai corpi e raggiungevano, in forma di animali, il luogo dello scontro (il «prato di Josafat»). L’ingresso nella setta era preannunciato al momento della nascita: tutti i benandanti venivano al mondo «con la camicia», avvolti cioè nella membrana amniotica. Un nesso tra la nascita con la camicia e la licantropia è documentato anche nel folklore slavo.

Ginzburg ipotizzò dapprima che i racconti dei benandanti e di Thiess risalissero a uno strato di credenze comune al Friuli e alla Livonia. Poi, in Storia notturna (1989), ricostruì una serie molto più ampia. Combattimenti in estasi contro gli stregoni (o i morti) per ottenere i semi della fertilità sono attestati non solo in relazione ai benandanti e ai lupi mannari baltici, ma anche ai kresniki balcanici, ai táltos ungheresi e a figure simili presenti nel folklore osseto e circasso. Si delinearono così i contorni di un antichissimo culto agrario imperniato sullo sciamanesimo, diffuso su una scala smisurata.

L’interpretazione avanzata da Ginzburg, si comprende, muove da una speciale fiducia negli elementi per così dire fantastici del discorso di Thiess. La singolarità della testimonianza – la traccia originale, dal decisivo valore indiziario – genera un’atmosfera fiabesca, facilmente liquidabile come un dato pittoresco e irrilevante. Il fenomeno irrazionale può invece essere spiegato in chiave razionale senza essere trasformato in altro da sé. Non altrimenti si darebbe la possibilità di ritrovare, e di descrivere, il legame tra la confessione del lupo mannaro e la realtà cui essa si riferisce.

Alla genesi e alle ragioni di questo metodo di indagine Ginzburg dedica pagine indimenticabili anche in Streghe e sciamani, uno degli scritti più belli inclusi nella raccolta Il filo e le tracce Vero falso finto, meritoriamente edita da Quodlibet in una nuova versione riveduta (pp. 399, € 24,00). Il percorso seguito dallo storico nelle sue ricerche sulle vittime dell’Inquisizione prese avvio dall’ipotesi che la stregoneria fosse «una forma rozza ed elementare di lotta di classe». Le prime testimonianze studiate sembravano, in effetti, confermarla oltre ogni aspettativa. Nel 1519 una contadina modenese fu condannata per aver tentato di uccidere, per mezzo di incantesimi, la padrona che l’aveva allontanata dai terreni in cui lavorava. I documenti lasciavano però intravedere anche altro. La «lettura minuta» degli atti inquisitoriali dava la possibilità di discernere, sotto le parole quasi sempre identiche dei giudici, indizi inattesi e singolari: «le voci, espressioni di una cultura irriducibilmente diversa, degli imputati».

La scoperta dei processi ai benandanti friulani mostrò risvolti imprevisti del quadro ricostruito fino a quel momento. In virtù della sua anomalia, il caso dei benandanti offriva una chiave per decifrare la regola, l’imposizione da parte degli inquisitori dello stereotipo del sabba stregonesco, vòlto a ridurre sotto lo stesso segno – e quindi a cancellare – ogni forma di sopravvivenza di credenze precristiane. Al contempo, consolidava un’acquisizione utile a contrastare vecchie e nuove tentazioni scettiche: «Scavando dentro i testi, contro le intenzioni di chi li ha prodotti, si possono far emergere voci incontrollate: per esempio quelle delle donne o degli uomini che, nei processi di stregoneria, si sottraevano di fatto agli stereotipi suggeriti dai giudici». Conservato da tracce frammentarie e distorte, il passato può talvolta assomigliare a un fantasma, ma a differenza dei fantasmi non è intangibile. A patto, naturalmente, che le nozioni di originalità, anomalia, unicità continuino a sussistere anche in futuro.

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