«Capri-Revolution», la danza del cinema alla scoperta del mondo
Mario Martone Il film mostra l’emancipazione di un soggetto in un deserto culturale che è anche il nostro contemporaneo. La protagonista apre gli occhi su un’anomalia, e dopo lo shock coglie la poesia dei luoghi e dei corpi
Mario Martone Il film mostra l’emancipazione di un soggetto in un deserto culturale che è anche il nostro contemporaneo. La protagonista apre gli occhi su un’anomalia, e dopo lo shock coglie la poesia dei luoghi e dei corpi
Tornare a Capri-Revolution dopo gli sguardi cursori che si sono snodati in occasione dell’uscita del film – forse interdetti o, giustamente, destabilizzati da un ecosistema filosofico problematico, stratificato, che fanno di questo, uno dei film più importanti della stagione cinematografica – significa ora poterne contemplare il portato umanistico, i processi di edificazione della persona, quel divenire personaggio da parte dell’essere, quindi quell’esserci direbbe Derrida, una volta inserito nel poema del mondo, nell’apparato di segni attraverso cui il mondo è, si esprime. Non affresco storico allora (come non lo era Il giovane favoloso e cercava una fuga in avanti, ad esempio mediante le musiche di Apparat), tutto teso a scandire la temperie del secolo scorso; ma opera d’attualità, nella misura in cui mostra l’emancipazione (e la solitudine) del soggetto all’interno del deserto culturale in cui agisce: che è (anche) il nostro contemporaneo, violento, sgrammaticato, divisorio; quel «realismo capitalista» di cui scriveva Mark Fisher, cioè la coscienza, o l’autoconvinzione che non ci possa essere alternativa, che ci si debba acquietare di fronte a questo sfibramento del sapere, della parola e dell’immagine, proprio del senso dell’umano.
L’ESPERIENZA di Lucia (Marianna Fontana) è esemplare e atemporale: una donna negli anni Dieci del Novecento, cioè un essere sottoposto a libertà vigilata, che si muove nel contesto di un’isola, di un microcosmo autoctono, all’insegna appunto dell’isolamento culturale, e che apre gli occhi su un’anomalia, un improvviso rapprendersi di senso apparso sul terreno brullo: le flessuose, gruppali nudità tra le radure, il baccanale, come la Danza di Matisse che ora codificano, rendono testo ciò che era solo contesto, panorama risaputo, subìto dalla pastorella di questa nuova arcadia. Solo adesso, dopo lo shock dei nudi nei boschi notturni, sgranati alla luce delle fiaccole secondo un disegno, una matematica misteriosa, lei sembra davvero comprendere la poesia dei luoghi e dei corpi che vi interagiscono: la refrattaria vertigine degli strapiombi sul mare; la sismografia dei boschi; sagome che s’agitano nella ritualità notturna; cieli e nubi a constatare lo stillicidio d’albe, l’oppressivo sanguinare dei crepuscoli.
QUINDI ancora la danza: è indicativo come quest’idea del coreografico sia ritornata nel Suspiria di Guadagnino con le stesse proprietà di liberazione del soggetto, che la inquadrano in quanto liberazione, conquista di spazi all’io, trasformazione degli spazi indistinti in testo, cifra (del mondo). Allora Lucia diviene se stessa nel momento in cui comprende questi spazi (semantici), questo testo (suggerito da Seybu, con tutto l’intrico d’estasi e lacune che lo riguardano) e lo fa proprio, ne prende parte, ne interpreta una parte. Cioè finge di essere se stessa, si interpreta, interpreta il mondo entrando in questa selva di segni: libri, partiture, passi di danza; tutto un apparato di rappresentazione, di finzione, che in quanto tale rivela la propria autenticità, le proprie verità. Nel momento in cui la ragazza impara a leggere – dopo l’apprendistato condotto grazie allo sguardo vorace, cinefilo, ipnotizzato dalle nude immagini che apparivano sullo schermo delle rupi, sullo sfondo ancestrale di Capri – acquista la parola, la prerogativa a costruire discorsi, figurazioni, finzioni; sussume a sé, al proprio corpo nudo, la possibilità del racconto, del testo di finzione: informa l’esteriorità brunita del suo corpo e così lo incarna pienamente, per la prima volta.
UNA PRATICA, quella del guardare, del pensare, dello scrivere, ecc., da sempre esposta da Martone nel suo cinema, se si torna ad esempio all’elucubrare ostinato del Matematico napoletano, o alla fatica, alla consunzione dei pensamenti e della lirica leopardiani, finzioni a loro volta («io nel pensier mi fingo»), per arrivare adesso, a questo stupefatto, famelico aprire gli occhi di Lucia, spalancarli sulle cose per spalancarsi alle cose, ripensarle, crearle dal nulla.
Ma oltre a dispiegare le fasi di questo umanesimo moderno, complesso (l’attitudine dei personaggi a fingere, codificare problematicamente e quindi conoscere la realtà), questo cinema arriva a mimarle, a farsi per un momento gesto che sfonda il quadro e svela l’artificio spettrale, se non l’arte, del cinema, così come all’improvviso, in pieno Ottocento, spuntavano piloni di cemento svenati di ferro in Noi credevamo, quasi a voler uscire dalla Storia, nonostante quel film sia della Storia un epitome perfetto, definitivo – mi chiedo se avrebbe ancora senso oggi girare un film storico in Italia, tanto più su quel periodo, dopo un tale capolavoro;- e uscire dalla storia, dal tessuto narrativo, per far emergere il gesto del corpo-cinema, cioè il mezzo di questo racconto, di questo mostrare. Ma c’è anche il suonare, il risuonare delle cose, delle immagini; quel vibrare elettronico delle fibre delle foglie, delle nottate orgiastiche, della trama rossastra, già esausta, dell’alba: la musica divenuta elemento espressivo imprescindibile, eclatante del cinema di Martone soprattutto nel Giovane favoloso, in cui l’elettronica ambientale di Apparat creava un cortocircuito temporale, strideva con l’ambientazione ottocentesca eppure sembrava essere così in sintonia con l’indole leopardiana, con l’infinitesimale del suo pensiero, l’inclinazione a uscire dai confini per proiettarsi verso un altro tempo, forse un tempo assoluto.
PROPENSIONE al futuro – io direi all’immemoriale –, anacronismi, errori voluti (Walter Siti li chiamerebbe solecismi) e interrogazione spesso dissimulata, laconica del mezzo, sono spunti che possono essere fiancheggiati, sostenuti da un libro importante uscito di recente, A distanza ravvicinata. L’arte di Mario Martone di Bruno Roberti, che tra l’atro si sofferma proprio sulla trasversalità e la stratificazione dello sguardo e degli interessi del regista napoletano che, com’è noto, è impegnato anche a teatro, nell’opera, nella sperimentazione audiovisiva.
INSOMMA un’irrequietezza presente in filigrana in ogni film di Martone e tanto più in questo suo ultimo lavoro, e che attraversa quest’idea moderna, sfaccettata, di umanesimo, mettendo costantemente alla prova l’impegno di fronte all’ineluttabilità della caduta, del baratro: penso a quello splendido film che è L’odore del sangue, al modo in cui acuisce, se possibile, l’inquietudine dettata dal libro da cui è tratto, quel brulicare, bruciare intestino del dolore dell’essere al mondo così urlante, urticante, nel tentativo di convogliarne l’urto, l’urlo, verso forme di vita più piene, che del resto era diventato l’orizzonte, intimo, più disteso, dell’ultimo Parise. Le stesse forme di vita a cui Lucia, quasi introiettando il percorso di Silvia nel girone del sangue, sembra giungere dopo essere uscita da uno scontro di culture: lo spiritualismo pacifista e omeopatico di Seybu (Reinout Scholten van Aschat) e lo scientismo interventista e comunista di Carlo (Antonio Folletto), il medico dell’isola. In effetti il Martone di Capri-Revolution si concentra a mettere in rapporto posizioni ideologiche diverse, opposte, dalla cui concomitanza d’altronde, dalla cui osmosi, dai cui spostamenti, come passi di danza appunto, il film trae linfa, vitalità, una libertà (espressiva) come conquista di spazi semantici lasciati liberi, eppure ancora condizionati come in un’eco, da questa dialettica, dalla collisione di dogmi.
TUTTO ciò per una questione di prossemica: Lucia si inserisce in questi territori liberati in conseguenza dell’attrito e della paradossale reciprocità di questi posizionamenti e riposizionamenti ideologici; ne percorre gli slarghi luminosi, i budelli ingombri d’ombre, per poter poi fuggire da sola in mare aperto, ormai fortificata dall’assunzione, dalla selezione di quegli stessi codici. Ed è un cinema endogeno allora, che si autoalimenta in virtù del contrappunto interno di forze, parti di un ragionamento costante che evidenzia le incongruenze, le grettezze, oltre alle illuminazioni, proprie di una parte come dell’altra: ad esempio l’animismo di Seybu anche in fatto di malattia (la quale andrebbe capita e non soppressa, assecondata magari con poltiglie d’erbe) o il cinismo, il ghigno parodico con cui il medico giudica le danze degli iniziati.
Quella di Martone è una teoria delle coesistenze, un ecosistema in continuo assetto, che nei suoi turbamenti apre zone entro cui possono esistere i personaggi umani troppo umani: un cinema in divenire allora, che non manca di mimare a momenti, per sperimentazioni e straordinari solecismi, il proprio assestarsi; ed è un cinema che si proietta silenziosamente verso innumerevoli possibilità, combinazioni, verso l’apertura come principio, poetica.
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