Cappa e spada filosofico per Hou Hsiao Hsien
Cannes 68 In concorso «The Assassin» il primo wuxia del maestro taiwanese ambientato al crepuscolo della Dinastia Tang
Cannes 68 In concorso «The Assassin» il primo wuxia del maestro taiwanese ambientato al crepuscolo della Dinastia Tang
«Un lungo viaggio verso la maturità», così il regista taiwanese Hou Hsiao Hsien ha descritto il percorso che l’ha portato – dagli anni di gioventù quando divorava i romanzi wuxia e il cinema fatto a Hong Kong da maghi del genere come King Hu – a dirigere solo oggi un film di arti marziali, The Assassin. Presentato in concorso, il primo lungometraggio dell’autore di Millennium Mambo da otto anni a questa parte (il suo Flight of the Red Balloon era al festival nel 2007) è una versione personalissima del tradizionale cappa e spada cinese con cui si sono misurati anche registi contemporanei non considerati «di genere», come Ang Lee (Crouching Tiger, Hidden Dragon) e Wong Kar-Wai (The Grandmaster). Intanto il formato – non l’anamorfico abitualmente usato per dare più spazio ai combattimenti, ma un’aspect ratio molto più stretta, quasi quadrata, che privilegia le linee verticali. Assenti in questo film ipnotico, magnifico anche quando è indecifrabile, sono i classici guerrieri volanti e il montaggio usato per dilatare l’azione.
Con The Assassin, Hou Hsiao Hsien ha infatti addomesticato il wuxia alla sua cifra stilistica, fatta di lunghe inquadrature ininterrotte, di ellissi narrative, parca nei primi piani a cui preferisce l’osservazione a distanza. «Volevo misurarmi con il genere ma nella vena realistica che caratterizza il mio temperamento. Guerrieri che volano nell’aria o fanno piroette sul soffitto non sono veramente nel mio stile. Preferisco mantenere i piedi sulla terra» spiega il regista nel press book.
Più vicino ai dilemmi filosofici dei samurai di Kurosawa, che ai monaci aerodinamici di King Hu, The Assassin è un film di bellezza visiva straordinaria (la fotografia è del suo abituale collaboratore, Mark Lee Ping Bing), che obbliga lo spettatore a resettare le sue aspettative, non solo rispetto al movimento interno del film ma anche, e soprattutto, ai suoi accenti.
Tratto da un racconto che s’intitola Nie Yinniang, e ambientato nel nono secolo, al crepuscolo della Dinastia Tang, sullo sfondo del braccio di ferro tra l’Impero e il potere crescente di alcune province comandate da militari, è la storia di Yinniang, l’assassina del titolo, introdotta da un prologo in bianco e nero che presto sboccia in un sontuoso bouquet dominato da lacche rosse e nere e dorate, filtrate da strati infiniti di morbide stoffe preziose – la corte un labirinto di sete dietro alle cui trasparenze si intravedono (non sempre comprensibilissimi) complotti, menzogne, i governanti e le loro concubine, un mago con i lunghi capelli e barba bianchi, e in cui si staglia, improvvisamente, la silhouette nera, di un killer.
Esiliata dalla famiglia quando era bambina per problemi di successione, Yinniang (Shu Qi, l’apparizione folgorante di Millenium Mambo) è cresciuta nelle montagne con una suora che l’ha educata all’arte di uccidere. È un’arte che pratica con efficacia, eleganza ed economia perfette. Eccetto quando decide di non ubbidire agli ordini – perché Yinniang è un killer di professione che rivendica la possibilità di pensare, avere dei sentimenti, e di scegliere. La vediamo affrontare senza paura bande intere di guerrieri che lei neutralizza con facilità, per poi sparire di colpo, come per incanto, lasciando l’azione sospesa… a mezz’aria. Contrariata perché la sua discepola non ha portato a termine un assignement, la suora decide di metterla ulteriormente alla prova inviandola nella regione dove è nata, con l’obbiettivo di uccidere un cugino (l’attore Chang Chen) al quale era stata promessa sposa da piccola, e che adesso governa la provincia militare più potente del Nord.
Filiforme, androgina, i capelli lunghissimi che si fondono con il nero profondo degli abiti, Yinniang appare/scompare alla corte come un fantasma, un angelo della morte. La sua una presenza quasi incorporea, che osserva la sua preda, l’uomo che amava, insieme ai suoi ministri, e alla sua famiglia.
Come la Furiosa di Mad Max , altra magnifica guerriera di questo festival, e diversamente dall’agente FBI di Sicario, che alla fine si fa sedurre dalle maniere extra-forti dei boys Benicio Del Toro e Josh Brolin, Yinniang non ha paura di combattere e di ammazzare anche nei modi più trucidi: ma ha delle rules of engagement, precise, e solo sue. Di infrangerle non se ne parla, anche se questo significa dover rinunciare al rango, ad appartenere a quell’élite rarefatta in cima alla montagna, e imboccare invece, al crepuscolo, giù a valle, un sentiero verso l’orizzonte insieme a un gruppo di contadini.
Punta altissima di un concorso in gran parte opaco e privo di sorprese,The Assassin (come Mad Max. Fury Road e il cinese Mountains May Depart) è il «cinema di donne» per cui battersi – non gli orrendi film diretti da registe che si sono visti qui, infilati nel programma grazie alle pressioni dell’invadente sponsor Kering, responsabile anche delle imbarazzanti, quotidiane, tavole rotonde contro «il sessismo di Hollywood». Long live Furiosa, Yinniang e Sheng, donne che non si sognerebbero mai di perder tempo a lamentarsi perché «si sentono»» lasciate in disparte.
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