Dall’Istat due notizie che meritano un po’ di attenzione. La prima è che l’inflazione, a dispetto delle «manovre» della Bce, continua a rimanere elevata; la seconda è che, anche per il 2023, come ogni anno, cambia l’elenco dei prodotti che vanno a comporre il cosiddetto «paniere di riferimento» per la rilevazione dei prezzi al consumo.

Nel mese di gennaio l’indice nazionale dei prezzi al consumo, al lordo dei tabacchi, ha fatto registrare un +0,2% su base mensile e un +10,1% su base annua, dal +11,6% di dicembre. Ma è solo la conseguenza del forte arretramento su base tendenziale – anno su anno – dei prezzi dei beni energetici regolamentati (da +70,2% a -10,9%) e, per una piccola parte, di quelli degli energetici non regolamentati (da +63,3% a +59,6%).

Parliamo, nel primo caso, di tariffe per l’energia elettrica del «mercato tutelato» e del gas per uso domestico; nel secondo del prezzo dei carburanti per gli autoveicoli, dei lubrificanti e di altri combustibili domestici privi di regolamentazione. Occhio infatti alla cosiddetta «inflazione di fondo», quella che si calcola al netto degli energetici e degli alimentari freschi, che a gennaio è continuata a salire, da +5,8% del mese precedente a +6,0%, con quella depurata dei soli beni energetici peraltro ferma a +6,2%.

Come rileva lo stesso Istituto di statistica, «rimangono diffuse le tensioni sui prezzi al consumo di diverse categorie di prodotti, quali gli alimentari lavorati, gli altri beni (durevoli e non durevoli) ed i servizi dell’abitazione, che contribuiscono alla lieve accelerazione della componente di fondo», con una importante accentuazione della «dinamica tendenziale dei prezzi dei carburanti» (ritornati alti dopo la mancata sterilizzazione delle accise da parte del governo). Beni alimentari (+12,2% su base annua), casa e carburanti, insomma, continuano a premere su salari, stipendi e pensioni.

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Intanto, da via Cesare Balbo fanno sapere che il «paniere» su cui si basano le rilevazioni statistiche relative ai prezzi dei beni di consumo ha subito qualche aggiornamento, come pure alcune metodologie di rilevamento. L’elenco dei prodotti per il calcolo dell’inflazione Nic (per l’intera collettività nazionale) e Foi (per le famiglie di operai e impiegati) passa da 1.772 a 1.885 tipologie, con alcune new entry: tonno fresco di pescata, rombi freschi di allevamento, leggings o jeggings da donna, deambulatore, radiografie, radiografie ticket, massaggio estetico (consumi consolidati).

Per rappresentare invece i cambiamenti nelle abitudini dei consumatori, del «paniere» entrano a far parte la visita medica sportiva, le riparazioni degli smartphone, le apparecchiature audio intelligenti (consumi evolutivi). Altri 19 prodotti vanno infine ad ampliare il ventaglio delle merci il cui prezzo viene rilevato mediante i codici a barre alle casse dei supermercati (i cosiddetti «scanner data»). Tra queste merci, alcune tipologie di frutta fresca (limoni, kiwi, banane, ecc.), di vegetali freschi (peperoni, zucchine, pomodori da sugo, carote, cipolle, patate, ecc.), di formaggi (quelli stagionati).

Cambia anche l’incidenza delle cosiddette «divisioni di spesa» (raggruppamenti per tipologie omogenee di merci). Si dà più «peso», per fare un esempio, a casa, acqua, elettricità e combustibili, meno a prodotti alimentari e servizi sanitari. Un segno dei tempi. È lo shock energetico, d’altra parte, che in questi tempi infausti flagella la nostra quotidianità. Ma di mangiare dobbiamo pur mangiare. E se il cibo aumenta non è perché abbiamo più soldi in tasca e facciamo andare in su la domanda. Il problema è dal lato dell’offerta. C’entrano sempre i beni energetici. E la guerra, che ormai è diventata «normalità», per i morti e le distruzioni, ma anche per le sue implicazioni economiche.

Torniamo alla prima notizia. Nel 2022 l’incremento medio delle retribuzioni fisse è stato del 3% nel nostro Paese. L’inflazione, però, è al 10,1 (12,2 % per gli alimenti). Il risultato è una caduta del 7% dei salari reali. Non poco nella «nazione» dei «salari da fame». La vera questione, a ben vedere, che non si risolve certo aggiornando il «paniere» delle merci da monitorare. Ma è la politica che dovrebbe farsene carico. L’Istat è deputata solo a fotografare la situazione.