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Bussy, lo zoo della purezza formale

Bussy, lo zoo della purezza formaleAlbert Simon Bussy, "Lilac Breasted Anglian Roller", 1942, olio su tela, coll. priv

Animal House, Novecento inglese: gli uccelli di Simon Bussy Già tra gli intransigenti dell’atelier Moreau, amico di Matisse, Simon Bussy da pittore francese si fece inglese nel frequentare lo zoo, e la Gentry, di Londra: una poetica senza tempo, ‘orientale’, stemmatica, che raggiunge i suoi vertici nei ritratti dei volatili, esotici e non

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 11 agosto 2024
Albert Simon Bussy, “The Seaugull”, s. d., pastello, coll. priv.
Albert Simon Bussy, “South American Kingfisher”, 1950, olio su tela, coll. priv.

Nel 1912, allorché Albert Simon Bussy, residente a Londra, comincia a frequentare il giardino zoologico, si compie, idealmente, la sua trasformazione: da pittore francese a pittore inglese. Non solo: come testimonia egli stesso in un testo all’interno della piccola monografia firmata nel 1930 da François Fosca per le edizioni della «Nouvelle Revue Française», la scelta di diventare animalier implica la radicalizzazione di certe costanti formali, un’opzione stilistica che lo pone al di fuori delle correnti moderne. Da francese (nato a Dole, Jura, 1870), Bussy aveva esordito nel modo più intransigente e sperimentale, allievo nell’atelier socratico di Gustave Moreau, dov’era stato sodale di Matisse, divenuto amico per la vita; da inglese, si consegnava a una poetica senza tempo, sigillata, stemmatica: toni piatti, contorni risentiti, ritmo, simmetria, semplicità. Desiderava realizzare dipinti «quasi monocromi», dove «l’emozione, certo, non è del tutto assente (…), ma io voglio, per così dire, depersonalizzarla».
Ci si è interrogati sulle relazioni di Bussy con certa pittura inglese ‘di tradizione’, come quella, icastica, del ritrattista Sir William Rothenstein, che a Londra gli era vicino di atelier e lo aiutò, introducendolo negli ambienti giusti: il New English Art Club, alcune gallerie di spicco; del resto Rothenstein si era formato nel culto di Degas e condivideva con Simon un passaggio alla scuola di Whistler.
C’è da credere che le forme e le fogge degli animali esotici dello zoo di Londra, fra i quali amava specialmente gli uccelli e i rettili, fossero decisive a confermare Bussy nella nuova poetica, comprendente, peraltro, anche il genere ‘ritratto’, con prove superbe degli scrittori suoi amici – in primis André Gide – e della Gentry londinese, che egli frequentava in quanto marito della scrittrice Dorothy Strachey, autrice di Olivia (1949), appartenente a una grande famiglia vittoriana. Dorothy scambiò con Gide, intimo della coppia, una nutrita e appassionata corrispondenza – edita in tre volumi da Gallimard, 1979-’82 – dove riferisce spesso del little Bussy, come apostrofava Simon per il corpo smilzo e minuto, alle prese con il suo lavoro. In una lettera del luglio 1928 racconta la dolorosa, picaresca disavventura occorsa al marito qualche giorno prima: stava disegnando allo Zoo, due «orribili ragazzini» gli hanno rubato la cartella, il lavoro di due mesi, «una dozzina circa di pastelli appena terminati», fra i quali, sostiene Dorothy, alcuni fra i suoi migliori in assoluto, perché «divengono sempre più straordinari – sempre più “lavorati” e, in apparenza, sempre più semplici».
Gli anni venti sono il periodo d’oro di questa produzione, che si protrarrà almeno fino al 1950, data dell’ultimo quadro conosciuto di Bussy, Le Pluvier du Cap, «su un fondo blu unito, l’uccello inquadrato perfetto. (…) Del nero, del bianco, del grigio. Qualche curva. È detto tutto», secondo la descrizione di Philippe Loisel, lo studioso del pittore, curatore dell’importante mostra di Beauvais,1996 (catalogo introdotto da Pierre Rosenberg). Questa resa pura e sintetica è frutto di una lunga osservazione, di una confidenza straordinaria: come scrisse Gide in occasione della mostra del 1948 alla galerie Charpentier, Parigi, «davanti a ogni forma vivente, egli sembra domandarsi: “e tu? che cosa hai da dirmi?”. E la tarantola o il granchio o lo scorpione si immobilizzano e liberano il loro segreto».
Parliamo di ‘ritratti’, vuol dire che non è in ballo la specie, ma l’animale individuo. È quel che avrà sedotto gli affezionati, fra i quali si contano, accanto a Gide, personalità eminenti, p. e. Paul Valéry, o Bernard Berenson, che, imparentato a Dorothy Strachey, fu destinatario, probabilmente nel 1927, di una pungente gouache, il Black Hornbill, immagine che nello stesso anno illustrava la copertina del Bestiaire (G. Govone editeur, Parigi), prose di Francis de Miomandre, figure di Bussy colorate a pochoir dallo specialista Jean Saudé. Di questo volume lussuoso, mitico, dove il pittore replica, più o meno fedelmente, opere precedenti, cinque copie furono tirate appositamente per Berenson, come informa Carl B. Strehlke.
Lo zoo di Bussy è composto dunque da immagini realizzate secondo diverse tecniche. La specialità del pittore è il pastello: il segno bloccato, riassuntivo, si stempera morbido e granuloso. Ma la piattezza ‘astratta’, così ricercata dal pittore, è affidata soprattutto all’olio su tela, come documenta un bel gruppo di opere, quasi tutte uccelli, esposte di recente a Londra, Browse & Darby Gallery, occasione rara per ammirare lo charme dell’artista dimenticato, piccolo ritorno di attenzione che fa il paio con l’asta ginevrina del 2021, in cui andò dispersa la collezione di Catherine Gide, figlia di André, dove figuravano alcuni vertici del Bussy animalier, soprattutto le Deux grandes aigrettes, bianche, ‘stampate’ sull’azzurro pallido, e incorniciate in oro secondo i dettami dell’artista, che gli appassionati dell’autore di Paludes ricorderanno a parete nell’appartamento di rue Vaneau in Avec André Gide, 1952, il film di Marc Allégret.
Nella collezione Gide non entrò mai La Grande Panthère «con la coda in post-scriptum», circa 1920-’21, che aveva «ossessionato»André; il «morceau du roi» – lettera a Dorothy – suscitava la sua «bramosia», ma non riuscì a strapparlo: sappiamo che Bussy lo regalò due giorni dopo a Jean Vanden Eeckhoudt, pittore suo amico, vicino di casa a Roquebrune, fra Mentone e Monaco, dove Simon e la moglie possedevano una magnifica tenuta, Le Souco, divenuta luogo di incontro privilegiato degli scrittori della «NRF» e degli eccentrici di Bloomsbury – ogni tanto, da Nizza, saliva Matisse.
La Pantera è compresa in un corpus particolare: pastelli-studio, con dettagli anatomici a parte, piccoli bastoni di colore-prova sul margine del foglio brunito; a volte si tratta della sola testa, di profilo (il giovane cervo maschio, muntjac), di faccia (il mandrillo, la pantera nera). Nell’ardente incompiutezza di questo materiale d’atelier c’è tutto il fascino della rivelazione, la serissima curiosità di un artista per il quale la morfologia delle bestie interroga e sfida il senso del guardare e gli strumenti del mestiere. Gli abbozzi, in questo senso, possono essere considerati i capolavori di Bussy, abbastanza estranei all’implicazione decorativa, che pure è un’altra freccia nel suo arco.
Se i mammiferi, più familiari, ispirano una teofrastica galleria di caratteri, identificano gli ingredienti-base dei nostri vizi e virtù allo stesso modo che i ritratti, specie i più inglesi e caricati (Lady Ottoline Morrell, circa 1920), i rettili, le farfalle, i pesci esplorati nell’acquario di Vincennes («mi attira la stupidità») e soprattutto gli uccelli, esotici e non, sollecitano una fantasia ‘orientale’, votata alla pura forma, alla musica dei rapporti cromatici e compositivi, in cui non è impossibile riconoscere l’ammirazione di Bussy per gli sviluppi del suo antico compagno di studî Matisse. Si tratta di immagini non di rado incorniciate da elementi ornamentali e/o architettonici, come nel piccolo capolavoro Pie bleue de l’Himalaya, circa 1920, coi quattro vasi che vegliano dall’alto del muro, la vasca specchiante, tutto in blu al pari del pennuto dalla lunga coda sulla ribalta. Il desiderio di ‘comporre’ a volte spinge Bussy a sintetizzare in un’immagine due invenzioni precedenti: nel Bestiaire di Miomandre, gli ibis rosa ‘dialogano’ con la veduta di Roquebrune, gialla, abbacinante, come nelle tavole nilotiche concepite in Egitto di lì a poco (1928) su richiesta dello storico amico Gabriel Hanotaux.
Ma i volatili più seducenti sono isolati nella loro assoluta singolarità morfologica e di piumaggio: ritagli di paradiso, sfida ipnotica ai rischi dell’illustrativo, ben presenti all’artista formatosi nell’avanguardia. Fondo neutro, compatto; a volte (L’étourneau bleu, Le calao de Sumatra) un arabesco imminente di foglie incornicia l’uccello, che stacca al centro da un altrove, un buco di cielo metafisico. «Delicatezza e sobrietà imposte dal gusto raffinato» (Roger Fry), ma anche, come vide Valéry, «moralità» che «insegna e rimprovera».

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