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Bugatti e un dio egizio, il rito di evasione

Bugatti e un dio egizio, il rito di evasioneRembrandt Bugatti, "Babbuino", circa 1910, collezione privata

Animal House, primo Novecento milanese: la scimmia di Rembrandt Bugatti Figlio della Scapigliatura, se ne emancipò nel Jardin de Plantes di Parigi e nello zoo di Anversa: qui, all’inizio della Grande Guerra, soffrì l’abbattimento degli animali. Si ammalò e morì giovane, suicida. Il suo babbuino, maestoso, concentrato, ha una socialità complessa

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 11 agosto 2024
Rembrandt Bugatti modella l’asino nello zoo di Anversa

Rembrandt Bugatti ha esordito nel 1901, a sedici anni, alla mostra primaverile del Palazzo della Permanente di Milano. Secondo la leggenda montata anni dopo, quando l’artista è all’apice della fama, il suo lavoro d’esordio era stato modellato nello studio del padre istintivamente, senza nessuna educazione artistica. L’anno dopo, tre sue sculture sono presentate alla Quadriennale di Torino; nel 1903 due opere sono alla Biennale di Venezia. In pochi mesi sbarca anche a Parigi, nella galleria del fonditore ed editore Adrien-Aurélien Hébrard, che diventa il suo principale mentore e sponsor. Ha poco più di vent’anni ed è già considerato – dal critico Louis Vauxcelles e da molti altri a cascata – uno degli animalier più importanti dell’epoca.
La carriera di Bugatti è fulminea; la sua vita brevissima è divisa in una simmetria inquietante tra i primi sedici anni e i successivi. Come se i primi fossero stati il negativo dei consecutivi tre lustri, prima che tornasse l’oscurità: nel 1916 a togliere la vita allo scultore è stata «une intoxication par le gaz d’éclairage» nell’atelier di rue Joseph-Bara. Le cronache dell’epoca eludono il termine suicidio, ma il gas si è propagato da un rubinetto aperto intenzionalmente.
A dispetto del mito inventato dal suo primo biografo, il critico Vittorio Rossi Sacchetti, Rembrandt ha avuto un approccio all’arte tutt’altro che spontaneo. Il nonno Giovanni Luigi è studioso di architettura e scultore, il padre Carlo è ebanista ed è noto a Milano per i suoi bellissimi mobili quanto per le sue stravaganze. Con Carlo, per sbarcare il lunario, avevano a lungo lavorato due suoi compagni d’accademia, Emilio Longoni e Giovanni Segantini. Quest’ultimo finisce per sposare Bice, sorella di Carlo.
Rembrandt nasce nel 1884; il nome è scelto dagli amici dei genitori e dal padrino, Ercole Rosa, lo scultore del monumento a Vittorio Emanuele II in piazza del Duomo. Casa Bugatti è frequentata anche dagli Scapigliati; chi di loro non è già trapassato affogando nei propri malesseri vive alla giornata. Dai Bugatti ci si può fermare anche per la notte, come in pensione. Si paga qualche lira alla Teresa, mamma di Rembrandt, e son soldi che fan comodo da quando Carlo è dovuto scappare a Parigi per evitare i creditori.
Uno degli habitué dei Bugatti è l’aristocratico di origine russa Paul Troubetzkoy. È anche lui artista, e uno dei migliori a Milano: traduce con la materia della scultura le pennellate sfilacciate dalla luce e dai sospiri degli amici scapigliati. È probabilmente lui a dare le prime lezioni di modellato a Rembrandt.
In quel giro tutti vivono nel mito di Giuseppe Grandi, ed è più che probabile qualche visita del piccolo Rembrandt nello studio dello scultore all’Acquabella. L’atelier di Grandi era una specie di serraglio: l’artista aveva ospitato un leone – «el pœr Borleo», morto d’esaurimento dopo essere stato lo zimbello di mezza città – e teneva animali liberi: conigli, capre, tartarughe, cani, tacchini, aquile… Chissà che impressione fecero sul piccolo Rembrandt quelle bestie che correvano e s’azzuffavano tra le sculture, sporche d’argilla e gesso e terra. Vivevano d’una libertà apparente, costrette dai muri e dallo steccato dello studio in una coabitazione forzata e caotica. Quante somiglianze con la Milano di quel momento, con la crescita frenetica e affannosa, l’esplosione delle energie e il loro consumo, le chiacchere serie e i pettegolezzi, la libertà, le liti, i successi e i fallimenti repentini, memorie antiche e amnesie, nello spleen intriso di nebbia, dei fumi delle fabbriche, della polvere delle demolizioni e del vapore dell’oppio.
In questo ambiente i primi pensieri artistici di Rembrandt non possono che dipendere dal naturalismo alla Segantini pre-Maloja, e la sua tecnica dal tocco impressionistico, ma controllato, di Troubetzkoy. Quindi mucche, pecore o cavalli stagliati sulla pianura lombarda e volumi corrosi dall’umidità e dalla luce, e titoli come «Ritorno dal pascolo». Ma Rembrandt è giovane e guarda avanti, per cui esaspera qualche elemento (le basi piatte e lunghe come quelle che saranno di Alberto Giacometti, la ripetizione ritmica dei volumi, l’esaltazione di piccoli movimenti pausati…) e s’accorge che con gli animali si trova meglio che con gli uomini. Così il naturalismo prima simbolico e poi sociale che tocca Longoni, Pellizza da Volpedo, Morbelli, si svuota, diventando l’appropriazione di una realtà extraumana, ma con termini che sono del tutto artificiali quali quelli della bella scultura. Intanto, per via di secessioni, si consumava un ribaltamento dei valori accademici che lasciava agli artisti animalier ampio spazio di manovra: con i pinguini e i bufali di August Gaul, poi con i legami tra scultura e arti decorative dell’Art Nouveau.
È a Parigi che Bugatti ritrae i suoi primi animali esotici: elefanti, cammelli, canguri, emù e ippopotami; singoli o in gruppo, ritratti dal vivo in lunghe sedute al Jardin des Plantes che sta vicino alla casa dove, dal 1903, si trasferisce la famiglia. Dal 1906 vive per molti mesi l’anno ad Anversa, attratto da quello che era uno degli zoo più importanti d’Europa. La tecnica è sempre la stessa e permette di conservare anche nella statua finita l’impronta del gesto creativo: le figure sono modellate dal vivo con l’argilla per poi essere tradotte in bronzo con la fusione a cera persa.
A Bugatti non interessa l’anatomia degli animali, non gli importa dei loro ambienti d’origine, della loro vita libera; non li rappresenta assecondando il sapere enciclopedico di moda, per cui anche gli animali e le loro esistenze entrano nelle consuetudini educative della nuova borghesia – la stessa classe media che sta dietro alla creazione degli zoo. Inoltre gli animali non sono mai trattati come simbolo d’altro: un leone è un leone, un ippopotamo è un ippopotamo. Non ci sono le lotte per la sopravvivenza o la proiezione sulla bestia di sentimenti umani e messaggi politici; gli elementi antropici sono perciò rarissimi: non ci sono le gabbie, né le briglie. C’è, in un caso solo, la stecca che cinge la zampa rotta di un’antilope.
Rembrandt riproduceva, con la rapidità che lasciava attoniti i colleghi, un elefante o un gatto o una scimmia ripetendo, giorno dopo giorno, un rito d’evasione. Gli animali non parlano, non giudicano, non hanno relazioni complesse come quelle umane. Era anche importante che queste sculture (dimensioni perfette per i Salon e per gli appartamenti borghesi) vendessero: e accade, così come avevano avuto un ottimo successo i mobili del padre Carlo e le auto di lusso del fratello Ettore. L’affermazione, che è terapeutica come l’accettazione, è però stata rapida quanto l’oblio, appena è salito il vento della guerra e l’evasione è diventata impossibile. Anche dopo, di Rembrandt Bugatti si parlerà poco: pochissime mostre importanti, pochi articoli, poco interesse, specie in Italia.
Allo zoo di Anversa Bugatti si lega ad altri scultori che passano lì le loro giornate, come Josue Dupon, professore all’Accademia della città, Albéric Collin e Frans Jochems. L’amicizia con i dipendenti e il direttore dello zoo si fa inoltre così stretta che nel 1908 due antilopi senegalesi partono da Anversa e sono consegnate nello studio dello scultore a Parigi. Ci restano da giugno a settembre per essere ritratte a grandezza naturale. Si ripete, in una versione più moderna, meno anarchica e caotica, il modello di Grandi.
Con lo scoppio della guerra tutto finisce. Sono passati vent’anni dal fallimento del padre e poco più di dieci dal trasferimento a Parigi. Nel 1914 Anversa è occupata dai tedeschi; Bugatti entra nella Croce Rossa e ha a che fare, per la prima volta in modo così fragoroso, con le efferatezze tutte umane che aveva rifuggito per anni. Intanto lo zoo è chiuso. Per mancanza di cibo e cure gli animali vengono abbattuti. La malattia lo prende in quel momento, insieme al dissesto finanziario. Ritrovare parte della famiglia a Milano lo consola poco e il ritorno a Parigi, nel 1916, non fa che acuire un senso d’estraneità a un mondo definitivamente franato nella violenza. L’8 gennaio muore per le conseguenze dell’intossicazione da gas.
Una delle sue sculture più note, tirata da Hébrard in più esemplari, rappresenta un babbuino che avanza lento. Sta appoggiando la zampa anteriore e ha lo sguardo fisso davanti a sé. È un animale con una socialità complessa, simile a quella umana. Rembrandt lo ritrae in una solitudine solo apparente, maestoso e concentrato come nelle rappresentazioni del dio egizio Thot. Ma ciò che colpisce di più è la chioma, costruita da un’armatura di forme geometriche che si agganciano a muscoli altrettanto affilati. È una sintesi che ricorda gli incastri colorati del Mandrillo di Franz Marc.
Viene da pensare che nel Babbuino, solo per un attimo, Bugatti abbia ceduto a quella decostruzione astratta che aveva salvato la sua generazione dagli orrori della realtà. È solo un momento, poi il suo sguardo torna limpido. E così rimane, finché ci saranno animali su cui concentrarlo.

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