Bufera su Idfa, registi in protesta ritirano i film
La manifestazione organizzata ieri dal Palestine Film Institute
Visioni

Bufera su Idfa, registi in protesta ritirano i film

Cinema La guerra in Medio Oriente arriva anche al festival dei documentari di Amsterdam. Tutto è iniziato alla cerimonia di apertura, con l’irruzione sul palco dei palestinesi. «From the river to the sea, un attacco contro di noi» dice l’industria del cinema di Tel Aviv
Pubblicato 11 mesi faEdizione del 14 novembre 2023

L’arte specchio della società. Una lettura che si conferma efficace se si osserva quanto sta accadendo questi giorni a Idfa, il più grande festival del cinema documentario che si svolge ogni anno ad Amsterdam. Tutto è iniziato durante la cerimonia di inaugurazione, mercoledì scorso, quando tre persone hanno fatto irruzione sul palco con uno striscione che recitava «From the river to the sea, Palestine will be free». Le ragioni del gesto sono state poi spiegate dall’associazione Workers for Palestine Netherlands: il festival, tradizionalmente molto politicizzato – inclusione e questione di genere sono due temi ricorrenti tra i film selezionati – è stato estremamente silenzioso su quanto avviene a Gaza, evitando di fare dichiarazioni e di chiedere il cessate il fuoco; laddove due anni fa, sottolinea l’organizzazione, la solidarietà con l’Ucraina era stata massiccia.

L’AZIONE sul palco viene però salutata con un applauso da parte del direttore artistico Orwa Nyrabia. Siriano, undici anni fa venne rapito e poi rilasciato dopo due settimane, presumibilmente dai servizi segreti siriani, a causa delle sue posizioni critiche nei confronti di Assad. Allora si generò un ampio movimento di solidarietà nei suoi confronti che coinvolse l’intero mondo cinematografico, stavolta le cose sono andate in maniera molto diversa.

L’applauso non è infatti passato inosservato, nel momento in cui «From the river to the sea» viene considerato da alcuni uno slogan che incita alla «cancellazione» dello Stato d’Israele – lo pensa la Germania, che lo ha reso fuori legge, mentre la corte d’appello olandese meno di un mese fa lo ha considerato legittimo, sostenendo che non sia legato all’antisemitismo e che vietarlo intaccherebbe la libertà di espressione. Per molti manifestanti si tratta di una  rivendicazione di esistenza della Palestina, per alcuni registi presenti al festival è un appello a porre fine alla violenza e all’oppressione nei confronti dei palestinesi. In ogni caso, alcuni dei «pezzi grossi» dell’industria cinematografica israeliana tra cui il capo dell’Israeli Film Academy Assaf Ami e il direttore del Jerusalem Film Festival Roni Mahadav-Levin hanno scritto una lettera dicendosi «delusi e preoccupati» del comportamento di Nyrabia, «lo vediamo come un attacco personale contro di noi, come cittadini della terra che si vorrebbe eliminare, il suo supporto pubblico potrebbe costare vite».

ECCO ALLORA che venerdì l’Idfa ha pubblicato un lungo comunicato in cui il direttore e il festival tutto hanno preso posizione in maniera netta: «Lo slogan scritto sullo striscione tenuto dai giovani manifestanti, che in seguito mi è stato riferito essere molto visibile al pubblico ma non a me sul palco, è una dichiarazione offensiva per molti, indipendentemente da chi lo porta. Non rappresenta l’Idfa. Ho applaudito per accogliere la libertà di parola, non per supportare lo slogan, che non dovrebbe essere utilizzato da nessuno».

La dichiarazione è stata ricevuta con sdegno dalla comunità cinematografica palestinese presente al festival. A poco è servito il comunicato, ritenuto tardivo e poco incisivo, con cui Idfa ha in seguito chiesto il cessate il fuoco. Il Palestine Film Institute, da alcuni anni con uno spazio dedicato all’Idfa, ha deciso di cancellare tutte le attività previste nel suo hub (dove si sarebbero dovuti presentare dei progetti filmici in progress) invitando invece a partecipare in quello stesso luogo, l’Internationaal Theater Amsterdam, a una manifestazione convocata ieri.

Cristina Berlini, direttrice del festival DocuDonna, ci racconta di una piazza partecipata da palestinesi ma non solo. «Sono intervenuti registi di tutte le nazionalità, tra cui sudafricani e nativi americani, che hanno in maniera specifica parlato di apartheid. In molti si sono poi lamentati di essere stati “silenziati” dal festival, che avrebbe chiesto di non affrontare la questione negli incontri che seguono le proiezioni. C’era molta commozione, soprattutto da parte di chi ha ritirato il proprio film, dicevano: sono anni che aspettiamo di presentarli e di partecipare ad Idfa, ma non possiamo fare altrimenti».

Quella del ritiro dei film dal festival è un’altra delle azioni raccomandate dal Palestine Film Institute – oltre a firmare una petizione e a disertare le proiezioni – ed è forse quella che finora ha avuto maggiore impatto. Tra i primi a farlo il filippino Miko Revereza (col suo film Nowhere Near), seguito dall’iraniana Maryam Tafakory (Mast-del), dal britannico Charlie Shackleton (Lateral), dallo sloveno Nika Autor (Newsreel 242 – Sunny Railways), dalla canadese Terra Long (Feet in Water, Head on Fire), dallo statunitense Sky Hopinka (malni) e, soprattutto, dalle palestinesi Jumana Manna e Basma al-Sharif. Quest’ultima era invitata come giurata al festival e avrebbe inoltre dovuto presentare quattro cortometraggi. Recita il suo duro messaggio condiviso sui social: «Mentre Israele continua la sua pulizia etnica e il genocidio dei palestinesi finanziato dall’Occidente, sembra che Idfa si sia sentito costretto a fare una dichiarazione dannosa che equipara la richiesta di pari diritti per tutte le persone in Palestina all’antisemitismo. Ho esaurito le parole e le energie per spiegare perché questo è così dannoso, perché lo spieghiamo da 75 anni e se dopo 75 anni, nel bel mezzo di un genocidio, nello spazio di un festival di documentari, in un Paese che crede nella libertà di parola, la voce di un popolo è privilegiata rispetto a quella di un altro, e solo la sicurezza e l’incolumità di un popolo contano, allora, in ultima analisi, Idfa crede che la vita di un popolo sia più importante di quella di un altro». Insieme a queste parole al-Sharif (e con lei molti altri) ha condiviso la mail che invia il festival agli spettatori per rendere conto delle proiezioni saltate: poche e laconiche righe in cui si dice che «per circostanze inaspettate» il film non verrà mostrato, proponendo poi un rimborso dei biglietti. Le pagine internet che rimandano ai titoli interessati vengono improvvisamente cancellate. Da molti dei registi in protesta, questa viene vista come un’ulteriore mancata assunzione di responsabilità da parte di Idfa.

NON TUTTI I FILMMAKER palestinesi, comunque, hanno scelto la via del boicottaggio. Un’importante eccezione è rappresentata da Mohamed Jabaly, presente al festival con un film in concorso, Life is Beautiful. Ha spiegato la sua decisione di rimanere con uno statement toccante: «Nell’industria del cinema documentario siamo una grande famiglia, dalle istituzioni ai singoli registi presenti. I miei colleghi cineasti palestinesi sono qui per prendere posizione e parlare e per cambiare la narrazione. Per poter raccontare storie che sono state messe a tacere più e più volte. Questo vale anche per me, come cineasta con un film in questo festival. Ho intitolato il mio film Life is Beautiful, perché anche se al momento non lo è, è quello che spero e scelgo di vedere e credere. Che alla fine la vita sarà bella. Non voglio fare un altro film sulla guerra. Se volete che lo faccia, lo farò. Ma dobbiamo fermare tutto questo insieme, come un’unica famiglia. […] È per questo che ho deciso di proiettare il mio film a questo festival. Voglio essere ascoltato. Perché ora che tutto è stato distrutto, ciò che rimane sono le nostre storie e la libertà di espressione».

In questo contesto incandescente si aspetta di vedere cosa accadrà nei prossimi giorni, considerato che il festival terminerà domenica. Uno dei pochi progetti foriero di dialogo era Issa’s House del regista israeliano Tomer Heymann, documentario incentrato sull’attivista palestinese Issa Amro, che pratica da sempre la non violenza ritenendola l’unica forma di lotta possibile affinché i palestinesi ottengano i loro diritti. Anche questo film è misteriosamente sparito dal sito del festival, un brutto segnale che sembra indicare la paura come la causa di tutte le parole che il cinema sembra per una volta non riuscire a pronunciare.

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