Con una meritoria operazione culturale la Fondazione Marignoli di Montecorona ha promosso la riedizione di Spoleto in pietre, guida alla città pubblicata nel 1963 da Bruno Toscano. La nuova edizione (a cura di Giovanna Sapori, Editoriale Umbra, pp. 606, illustrato, euro 40,00) si presenta accresciuta e aggiornata, nella quantità enorme di titoli bibliografici ma anche nei contenuti: basti citare su tutti il caso della Rocca albornoziana, che da carcere nel 2007 è divenuta sede del Museo Nazionale del Ducato.

Facendo opera di erudito, sessant’anni fa Toscano costruì la sua ‘guida’ basandosi sulle notizie fornite dalle opere a stampa e dai manoscritti d’archivio redatti dai suoi pari, gli eruditi di Sette e Ottocento. Destino ingiusto quello del termine ‘erudito’: «Erudizione: Complesso di cognizioni acquisite in uno o più campi del sapere, attraverso la ricerca ampia e minuta di dati e notizie, non sempre accompagnata da originalità di pensiero e finezza di gusto (e in ciò si distingue dalla cultura)». Così nel Vocabolario Treccani. Un libro come Spoleto in pietre ci invita invece a recuperare l’antica etimologia del termine: erudire, da ex e rudis, «sottrarre alla rozzezza, istruire, rendere accorto e saggio». Ecco allora che la conoscenza capillare e sofisticata dell’erudito non si distingue più dalla cultura, ma anzi, acquista un senso di incisione attiva sulla società. Che è quanto Bruno Toscano ha inteso fare nel 1963 e ribadisce oggi, riproponendo ostinatamente una trattazione destinata a una lettura lenta e meditata, organizzata in ‘giornate’ passate a camminare per Spoleto, rivolgendosi a noi come cittadini consapevoli e non come turisti di passaggio.

In una recensione pubblicata su «Rinascita» Giovanni Previtali definì il libro del collega spoletino – e in particolare la densa Introduzione metodologica – come un «saggio di storiografia viva, sostenuto da un’ansia per il presente», e ne consigliò la lettura ai funzionari di Soprintendenza. Osservava tra l’altro Previtali, «il dilagare della massa dei turisti, abbrutita ed ammaestrata da impresari che hanno tutto l’interesse a creare un tipo standard di cliente, sempre più spersonalizzato, che si incanali senza protestare negli argini degli itinerari predisposti, sempre gli stessi. A questo modo sopravviveranno, forse, alcune opere celeberrime e super restaurate, ma andrà in malora tutto il ricchissimo tessuto connettivo da cui quei capolavori ripetono la propria origine e ricavano, per chi sappia intendere, tutto il loro senso». Considerazioni che appaiono quanto mai attuali oggi, quando overtourism e affaristica immobiliare producono cambiamenti strutturali nei nostri centri storici, con ricadute che appaiono gravissime, non solo sul piano culturale ma anche su quello sociale.

Vero e proprio trattato di ‘storia urbana’, Spoleto in pietre voleva e vuole tenere intrecciati il piano della topografia con quello della storia sociale, urbs e civitas. Gli itinerari proposti non puntano alle mete eccelse, piuttosto si adattano ai tracciati viari, il vero tessuto storico, la rete pulsante che nei secoli ha disegnato il volto di una città assai complessa sotto il profilo orografico, e che l’autore considera come un grande essere umano, un «organismo» che si relaziona con l’ambiente rurale circostante. Si profilava così, nel 1963, una modalità nuova di concepire e di descrivere la città, quella prospettiva dinamica tesa a «superare il modulo centro storico come oggetto privilegiato delle ricerche», e che si allargava invece al «sistema urbano-territoriale», come Toscano spiegherà in seguito. In questo senso la ‘guida’ di Spoleto annunciava l’impegno che lo storico dell’arte avrebbe profuso di lì allora nel campo della tutela, associandolo sempre all’insegnamento universitario, per giungere a elaborare un’idea onnicomprensiva di patrimonio – dal dipinto al reperto archeologico, all’utensile, all’architettura rurale, al paesaggio e ai beni demoetnoantropologici, intesi dallo studioso anche nella loro dimensione immateriale.

Spoleto in pietre fu scritto nella fase di elaborazione di nuove politiche di conservazione, suscitate dal cosiddetto boom economico. Già allora a chi voleva vedere si palesavano i rischi collegati allo sfruttamento indiscriminato delle risorse di un territorio di per sé estremamente fragile come quello italiano. Si facevano sentire le prime voci di denuncia, come quella di Antonio Cederna, che pungolava la politica sollecitandola a occuparsi della salvaguardia dei centri storici, ma anche dell’ambiente naturale. Snodo principale di quel decennio fu la Commissione parlamentare «per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio», meglio nota con il nome del suo presidente, l’onorevole Francesco Franceschini (1964-’67). Commissione fallimentare nell’esito delle risoluzioni politiche, ma fondamentale per l’affermazione in Italia della nozione di «bene culturale», definito un «bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà». Con tale concetto si imponeva in Italia un’idea ampia e inclusiva di cultura, sostenuta anche dalle ricerche ad amplissimo ventaglio di Ernesto de Martino. Gli anni settanta furono poi il decennio in cui si mise in atto quella grande visione della conservazione. Stagione esaltante di cui Toscano fu uno dei più attivi protagonisti (questa fase è ripercorsa in un numero del 2022 di «Quaderni storici», in cui tra l’altro Giovanna Capitelli dedica un densissimo saggio proprio allo storico dell’arte spoletino).

Seguendo il modello della geografia umana di Lucio Gambi, ma anche i classici francesi degli anni venti (La Terra e l’evoluzione umana di Lucien Febvre, i Principi di geografia umana di Vidal de la Blache), ai funzionari degli anni settanta la geografia appariva il riferimento teorico e metodologico imprescindibile (triste constatazione se pensiamo alla progressiva scomparsa oggi di questa disciplina dai percorsi scolastici italiani). L’attenzione si focalizzava dunque naturalmente sul territorio, inteso come sistema di relazioni materiali, economiche, storiche, sociali e culturali. Come ricorderà Toscano molti anni dopo, «le opere spiegavano i luoghi, ma anche i luoghi spiegavano le opere».

Il tema del paesaggio è centrale in tutta l’opera di Bruno Toscano. Nella ‘guida’, se Spoleto è raccontata nelle sue pietre, non minor peso hanno i rivi, le valli e i boschi circostanti, che hanno tratti quasi leggendari (Michelangelo vagava tra i «romiti nelle montagne di Spuleti», perché – confessava a Vasari – «e’ veramente non si trova pace se non ne’ boschi»). L’autore ricorda come gli spoletini abbiano sempre intrattenuto una relazione speciale con la selva del Monteluco, caso emblematico di una lunga storia di rispetto e di cura del territorio. Nel 1296 cade l’articolo degli Statuti che vi vieta il taglio della legna (De pena incidentis lingna in Monteluco), mentre nel 1642 è la volta del precocissimo provvedimento a tutela della ‘prospetiva di Monteluco’, di quella massa verdeggiante che si comprende essere parte integrante dell’aspetto della città, della sua scenografia. Monteluco otterrà infine un decreto di vincolo nel 1919, quando un clima di sensibilità patria per le bellezze naturali si diffonde nella nazione, alimentato da intellettuali e funzionari delle Belle arti, come Corrado Ricci e Benedetto Croce.

Oggi per noi questa concezione ‘olistica’ del paesaggio, come unum naturale e antropico, è cosa data. La si enuncia nel Codice dei beni culturali del 2004 : «Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni», facendo èco alla Convenzione europea del paesaggio, siglata a Firenze nel 2000, in cui si sottolinea il ruolo attivo dalle comunità nel mantenere integro quel bene comune. Ecco, appunto: ‘bene comune’, locuzione il cui valore non sta tanto nel ‘bene’, quanto nell’essere ‘comune’. Res publica. La conquista di questi assunti la si deve anche alle battaglie che Bruno Toscano e molti altri portarono avanti tra gli anni sessanta e settanta del Novecento, tenendo bene in mente la Costituzione. Riproporre oggi Spoleto in pietre significa mantenere viva la memoria di quella straordinaria stagione della tutela del nostro Paese, e misurarla con l’attualità.