Economia

Bisogna fermare il rilancio dei liberisti

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Dopo l'austerity le riforme strutturali L’«austerità espansiva» elaborata da Alesina e sposata dalle istituzioni europee è fallita. Ma ora, senza autocritica, gli stessi economisti che ci hanno portato al disastro preparano un’altrettanto tragica «fase due»

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 4 settembre 2014

È dal fatale febbraio 2010, quando Alesina presentò all’Ecofin la teoria dell’«austerità espansiva» che la sinistra, politica e intellettuale, europea combatte contro l’austerità. Con poco successo, peraltro. Ma, oggi, corre un altro rischio: che sia la stessa destra a revocare quella linea disastrosa, peraltro, mantenendone l’obbiettivo politico di fondo. Perché contrariamente a quanto sostenuto da Giavazzi e Alesina sul Corriere della Sera il 29 scorso, il liberismo non è di sinistra; soprattutto il loro.

Una decina di giorni fa, Giavazzi e Tabellini, sodali di Alesina nel sostegno alla linea dell’«austerità espansiva», hanno pubblicato su Vox, la rivista on line di un importante centro di ricerche economiche inglesi, un pezzo in cui si legge che «la principale sfida che l’Eurozona oggi ha di fronte è la carenza di domanda aggregata». Per due economisti, che avevano in modo inossidabile difeso le misure di austerità, è un cambiamento non da poco. La novità è l’accento su problemi di domanda. Anche se esplicitamente non lo ammettono, è ovvio che il punto di partenza è il riconoscimento del fallimento del presunto ruolo espansivo delle misure di austerità, contrariamente a come era stato orgogliosamente annunciato.

Ma se ampliamo l’orizzonte ci accorgiamo che il riconoscimento della carenza di domanda, ostinatamente negato fino a oggi, per quanto implicito, è generalizzato. Draghi nella sua relazione a Jackson Hole dice: «Dobbiamo agire dai due lati dell’economia: politiche di domanda aggregata (sic, ndr) devono essere accompagnate da politiche nazionali strutturali». La carenza di domanda è il punto di contatto con le idee di Giavazzi e Tabellini e perfino di Weidmann, il presidente della Bundesbank, l’acerrimo antagonista di Draghi. E questa è la novità; comune. Cioè, pur mantenendo una retorica che si rifà all’austerità, le dirigenze politiche europee riconoscono di fatto che le politiche di austerità sono fallite.

È su come uscirne che tornano a dividersi. Possiamo disegnare una mappa delle posizioni. A un estremo stanno Giavazzi e Tabellini con una proposta liberista radicale di sgravi fiscali e di deficit. Al centro Draghi, che rifiuta i deficit e propone come misura principale lo stimolo monetario. E all’altro estremo Schäuble con Weidman; contrari sia ai deficit che alle misure monetarie.

Vediamo le ricette. Giavazzi e Alesina avevano cominciato tempo fa sul Corriere della Sera proponendo un taglio del cuneo fiscale di quaranta miliardi (Renzi ne ha tagliati otto). Su Vox, Giavazzi e Tabellini sono arrivati a ottanta miliardi di sgravi fiscali (6% del Pil), da recuperare con tagli di spese in tre-quattro anni, sforando quindi il parametro del deficit in misura consistente. Una rivoluzione (altro che i quattro miliardi di nuove risorse previste dallo Sblocca-Italia: lo 0,25% del Pil). Sul Corriere pochi giorni fa non hanno fatto cifre; ma questa è la loro proposta.

Le conseguenze sono ovvie. L’aspetto paradossale della situazione è che la misura che ha maggiori probabilità di innescare quantomeno spunti di ripresa, rispetto alle altre, è quella di Giavazzi e Tabellini, che è anche quella con il più duro segno di classe. Politica che inizia con sgravi per metter potere d’acquisto soprattutto nelle mani di ceti abbienti e continuerebbe, nei tre-quattro anni successivi, o più, per recuperare tutto lo sgravio a spese dei ceti medio-bassi: i tagli di spesa per l’appunto, con l’esito di un’esplosione della disuguaglianza.

La ricetta è completata dalle «riforme strutturali» del mercato del lavoro, che dovrebbero evidentemente garantire che l’aumento di domanda, gestito dai redditi medio-alti, che eventualmente seguisse non intaccasse la Grande Moderazione salariale attraverso una riduzione della precarietà del lavoro; che va invece garantita, anzi approfondita.

Su questo punto non c’è differenza con Draghi, che nel discorso di Jackson Hole ribadisce la sua nota insistenza sulle «riforme di struttura», cioè l’aumento della flessibilità del lavoro, in tutti i sensi, come chiave della ripresa. Riportando l’esempio di Grecia e Spagna, come i paesi che, grazie a queste «riforme», si sarebbero lasciati dietro la recessione, il che com’è noto è semplicemente un’interpretazione pretestuosa dei fatti.

Peraltro, è fin dal gennaio 2012 nell’intervista al Wall Street Journal che Draghi si è fatto paladino di una linea di compressione sociale, nei due lati di riduzione della copertura del welfare e delle difese contrattuali dei lavoratori. Quest’ultimo motivo, costante e ripetuto, sembra assumere oggi un nuovo significato: cioè la riduzione drastica delle difese contrattuali pare essere diventata la condizione ‘politica’ dell’abbandono delle politiche di austerità.

A Jackson Hole Draghi ha aperto uno spiraglio agli sgravi fiscali, per quanto molto più moderato di Giavazzi e Tabellini, ma che comunque gli ha guadagnato i rabbuffi della Merkel. Gli sgravi fiscali, pure utili, devono essere compensati da tagli di spese. Niente sforamento del deficit. Per Draghi, invece, lo stimolo espansivo deve venire dall’annunciata politica monetaria. Di cui ha già messo in opera una prima tranche, ma con scarsi risultati. E con il rischio che una fase molto più decisa possa innescare una bolla edilizia molto più che una ripresa industriale.

Anche Schäuble e Weidman ovviamente partono da una carenza di domanda. Ma si preoccupano che vengano rispettati alcuni tabù. Che non si restituiscano spazi di autonomia alle politiche fiscali dei paesi in deficit, allentando la pressione sui loro bilanci. Che le misure di rilancio non siano monetarie; cioè che la plancia di comando non sia a Francoforte, ma a Berlino. Da cui l’idea che l’unico stimolo all’economia europea debba venire dalla crescita della domanda interna tedesca, via aumento dei salari dei lavoratori tedeschi. Naturalmente per gli altri paesi vale sempre la linea della «svalutazione interna», via «riforme strutturali». Ribadendo la linea della subordinazione gerarchica degli altri paesi al neo-mercantilismo tedesco; linea di «imperialismo intra-europeo», mai seriamente contrastata dall’Spd.

Non è da escludere che, fallendo altre misure, passi alla fine quella di Giavazzi e Tabellini. Ma una cosa, dal fatale 2010, rimane immutata: che l’uscita da questa crisi debba avvenire in direzione opposta a quella presa dall’uscita rooseveltiana dalla crisi del 1929: maggiore difesa dei lavoratori (i sindacati si svilupparono impetuosamente dopo il Wagner Act del 1935) e sostegno alla domanda sia con programmi mirati che, in generale, con l’aumento della spesa pubblica e del deficit come strumento redistributivo verso i redditi medio-bassi. Ma che, invece, giocando sull’indebolimento sia dei gruppi sociali che delle loro organizzazioni dovuto alla crisi, giunga alla massima revoca possibile delle concessioni, strappate in quella congiuntura, compatibile con il mantenimento di un quadro democratico (ma non vale per tutti; vedi Marchionne, o JpMorgan).

La morale è che i liberisti sono temibili quando sostengono l’austerità, ma lo sono ancora di più quando propongono il rilancio.

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