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Bill Viola, questione di sopravvivenze

Bill Viola, questione di sopravvivenzeUn'operea di Bill Viola esposta in permanenza nella cattedrale londinese di St Paul: «Mary», 2016, video-trittico

"Rinascimento elettronico" a Firenze, Palazzo Strozzi Il lavoro del video-artista americano, per la prima volta a confronto diretto con gli antichi maestri che lo hanno ispirato (Pontormo, Masolino), va letto come atto di fede verso la temporalità

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 19 marzo 2017

E’ il crepuscolo: il cielo ha una totalità fra l’azzurro tenebra e l’oltremare. La scena è spoglia, anonima. Al centro dell’immagine conversano due donne. È estate: una lieve brezza muove i tessuti, scompiglia appena i capelli. Poi nell’inquadratura entra una terza donna. È più giovane delle altre, e sorride luminosa. Anche la donna anziana s’illumina, e le due si abbracciano con trasporto. La nuova arrivata dice qualcosa all’orecchio dell’amica, che la guarda in preda allo stupore. Infine il gruppo si scioglie. È The Greeting di Bill Viola: al Piano Nobile di Palazzo Strozzi, il pubblico contempla in silenzio religioso, è il caso di dire, la scena lentissima (i quarantacinque secondi effettivi sono rallentati sino a durare dieci minuti), senza però degnare di uno sguardo, alla propria sinistra, l’«originale»: cioè la Visitazione del Pontormo conservata alla Pieve di San Michele Arcangelo, a Carmignano. Qui le due donne di profilo sono la Madonna e sua cugina Elisabetta, alla quale la prima dà la notizia della propria gravidanza miracolosa; l’Arcangelo le ha pure spiegato che anche la gravidanza di Elisabetta è frutto di un miracolo. Pontormo ovviamente non ci può mostrare l’arrivo di Maria, né la sua conversazione con Elisabetta; l’unico flash a sua disposizione è il momento in cui le due si abbracciano. Vediamo bene, invece, il vento che muove le vesti – accentuando l’effetto stupefacente dei loro colori.
The Greeting risale al 1995, ed è il primo lavoro di Viola a riprendere in modo esplicito un’opera della tradizione. Il saluto del titolo, dunque, è pure quello del «pittore elettronico» al suo predecessore di cinque secoli prima. E rappresenta un «incontro», a sua volta, la grande mostra a Firenze, Rinascimento elettronico (a cura di Arturo Galansino e Kira Petrov, a Palazzo Strozzi sino al 23 luglio, catalogo Giunti, pp. 240, euro 40,00): perché per la prima volta questo e altri d’après di Viola sono esposti nel medesimo spazio delle opere che li hanno ispirati. In questo caso anzi, mettendosi in una certa posizione, è possibile vedere entrambe le opere insieme. Nelle altre «visitazioni», invece, il rispecchiamento è perfettamente simmetrico: per esempio per guardare Emergence, del 2002, dobbiamo dare le spalle al Cristo in pietà di Masolino da Panicale (1424), conservato al Museo della Collegiata di Sant’Andrea a Empoli.
Al di là del test di sociologia della fruizione, la disposizione delle scene in parallelo restituisce bene l’ideologia che ha condotto Viola a questo confronto con la tradizione: un’ideologia facilmente interpretabile in chiave postmodernista (come mostra anche la citazione in catalogo, da parte di Kira Petrov – dal 1978 compagna di vita e principale collaboratrice di Viola – del citazionismo di Picasso e Stravinskij, phares del postmodernismo militante di allora). Quando a parete si legge una frase di Viola, «tutta l’arte è contemporanea. È senza tempo, universale ed eterna», si capisce come un artista così consapevole delle implicazioni simboliche della tecnologia, e insomma del Ghost in the Machine (come dimostrano gli scritti anni ottanta raccolti da Valentina Valentini in Vedere con la mente e con il cuore, Gangemi 1993), abbia potuto conquistarsi una popolarità da rockstar.
Sincretismo religioso
La retorica new age del sincretismo religioso di Viola è indubbiamente fastidiosa. Ma, per apprezzare questo artista tanto sontuoso quanto commovente, la mostra di Firenze fornisce gli strumenti storici per comprenderne le origini e lo sviluppo. L’insistenza con cui negli ultimi anni è tornato a Firenze, infatti, trova nella parte documentaria della mostra, alla Strozzina – al pianterreno del Palazzo, alle radici dunque dei fasti high-tech al Piano Nobile –, una spiegazione precisa. Dal 1974 al ’76, infatti, un Viola poco più che ventenne lavora presso art/tapes/22, la prima casa di produzione di videoarte in Europa, fondata da Maria Gloria Bicocchi: qui, producendo i lavori di artisti come Acconci, Boetti, Kounellis, De Dominicis, Beuys e Abramovic (e restando colpito dal grado di consapevolezza dell’unico lavoro in video di Giulio Paolini, Unisono del ’74), si consuma la metamorfosi del giovane «tecnico americano» in «pittore elettronico». Firenze rappresenta dunque, per Viola, tanto la culla dell’atavismo riconquistato degli antichi maestri (dopo aver visto per la prima volta la Deposizione di Pontormo, ha ricordato di recente, «mi domandai, sinceramente, che cos’avesse fumato il pittore per dipingere quei rosa, per dipingere quegli azzurri incredibili. Sembrava che avesse lavorato sotto l’effetto dell’LSD») quanto l’incontro con le più moderne tecnologie, in un clima di effervescente agitazione culturale e politica. Altro che new age.
E in effetti, a considerare con più attenzione le sue pratiche concrete, se ne ricava una lezione di dialettica iconica ben distante dai suoi proclami a effetto. In un’intervista rilasciata due anni fa a Bruno Di Marino, proprio su queste pagine, aveva detto che «l’essere umano contempla la dimensione duplice del temporale e dell’eterno»: e certo la pratica di «mettere in movimento» e narrativizzare le icone della tradizione pertiene assai più alla dimensione temporale, si capisce, che a quella dell’eterno. La frase è riportata nell’introduzione a un saggio di Viola del 1990, Nero video. La mortalità dell’immagine (ora nella collana «Irruzioni» di Castelvecchi), che mostra quanto l’artista sia consapevole di come il passaggio dalla visione frontale e «senza tempo», alla soggettivazione prospettica che chiamiamo «Rinascimento», sia appunto in nome della temporalità: «le immagini diventano “istanti cristallizzati”, manufatti del passato; e, guadagnando un posto sulla Terra, accettano la propria mortalità». L’immagine in movimento non fa che sprigionare nell’atto la potenza di questo dinamismo: e fa del «tempo stesso la materia prima dell’arte». È insomma in linea, Viola, con l’interpretazione che di Aby Warburg ha dato Giorgio Agamben in uno dei suoi saggi più belli, Ninfe (Bollati Boringhieri 2007): anche «le pathosformeln sono fatte di tempo, sono cristalli di memoria storica», e non è un caso che le ricerche di Warburg siano contemporanee alla nascita del cinema: «si tratta, in entrambi i casi, di cogliere un potenziale cinetico che è già presente nell’immagine» in forma di persistenza retinica, ovvero – per dirla appunto con Warburg – di sopravvivenza. Non sorprende, allora, che la riflessione di Agamben prenda le mosse proprio da The Greeting: tanto negli originali che nelle loro sopravvivenze «ogni istante, ogni immagine anticipa virtualmente il suo svolgimento futuro e ricorda i suoi gesti precedenti».
Gli spiriti dei morti
In un saggio del 1982, rievocando il soggiorno in Giappone che gli ha fatto scoprire lo Zen, Viola descrive il rito dei morti alla montagna Osoresan, dove sacerdotesse cieche evocano «gli spiriti dei morti su richiesta dei loro famigliari secondo una pratica vecchia di secoli»; e comprende, improvvisamente, a cosa miri l’ossessione della più avveniristica industria giapponese per la registrazione delle immagini. In generale, dice in un altro suo testo Viola, le culture primitive sapevano che, quando una persona cara muore, «l’immagine della memoria di quella persona nella mente del prossimo non scompare immediatamente». È questa persistenza del passato nel presente che egli ha voluto immortalare con le più strabilianti tecnologie a sua disposizione. La fede nella sopravvivenza non deriva dall’intemporale, dall’eterno: al contrario è il dispositivo cui ricorriamo, noi sublunari, per farci una ragione della nostra caducità.

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