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«Bias, l’insidia per il cervello ecologista»

Intervista Secondo Cristiano Bottone, di «Transition Italia», per affrontare la sfida epocale del cambiamento climatico bisogna superare gli errori cognitivi che ci impediscono di affrontare i processi di cambiamento

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 27 giugno 2019

Fra i vari movimenti ecologisti il «Movimento della Transizione» è indubbiamente uno dei più completi, capace di tenere assieme tutti gli aspetti importanti del cambiamento, da quelli macroscopici come l’analisi dei sistemi socio-economici e naturali, a quelli più piccoli come i processi di cambiamento individuale. Si tratta di un movimento nato a Totnes, in Inghilterra, nel 2002 e presto diffusosi in tutto il mondo con l’obiettivo di traghettare la nostra società industriale verso un modello più resiliente, sostenibile, equo e – perché no? – felice. Per chi si occupa di Transizione lo studio dei bias cognitivi e dei meccanismi più o meno consapevoli del nostro cervello sono il pane quotidiano. Nessuno meglio di Cristiano Bottone, che la Transizione l’ha portata in Italia, può spiegare come affrontare e superare i bias cognitivi e costruire processi di cambiamento efficaci.

Il nostro cervello compie in continuazione degli errori che ci restituiscono una visione distorta della realtà. Esistono dei rimedi?

Un primo accorgimento, che tutti possono mettere in pratica, è iniziare a conoscere meglio i bias più comuni. Più si ha consapevolezza di questi meccanismi, più ci è facile riconoscerli quando scattano sia in noi che negli altri, quindi smascherarli e ricostruire una ragionevole visione della realtà non alterata da questi elementi deviati di comprensione.

Quindi il fatto che molti di questi bias siano meccanismi biologici non li rende inevitabili?

I meccanismi restano ma si possono creare le condizioni per superarli in modo positivo. Molte reazioni biologiche sono infatti dipendenti dal contesto. Se ci troviamo in un contesto che percepiamo come ostile è più probabile irrigidire le difese, che invece restano sopite in un contesto che sentiamo positivo. Questo spazio accogliente permette anche una migliore rielaborazione dei dati razionali, quella cosa che chiamiamo «cambiare idea» ed è lo spazio migliore per superare gli effetti bloccanti dei bias: la dimensione in cui è più facile vedere la realtà in modo più oggettivo.

Quali strumenti o tecniche possiamo utilizzare per costruire un contesto diverso?

Ci sono delle metodologie relativamente semplici e alla portata di tutti. Ad esempio possiamo imparare ad utilizzare la comunicazione non violenta (vedi box di approfondimento, ndr), uno strumento che ci aiuta a pensare e a comportarci in modo differente, cosa che modifica quasi istantaneamente l’ambiente intorno a noi. Un’altra cosa che possiamo fare nella vita di tutti i giorni è chiedere facilitazione. Se facciamo parte di un gruppo di persone che deve decidere qualcosa, non importa se è un’assemblea di condominio, un gruppo di lavoro, un’associazione, è bene sapere che esistono dei modi diversi di comportarsi e di prendere le decisioni, e che esistono figure professionali in grado di aiutarci a metterle in pratica. La figura del facilitatore è molto diffusa nei paesi del Nord Europa, e adesso sta arrivando anche da noi: è una persona formata per gestire processi di un gruppo, accompagnandone il cammino. Un buon facilitatore è in grado di capire quali sono i bias che stanno entrando in azione, per disarticolarli e ricostruire le condizioni in cui possiamo capire, tornare al senso delle cose che stiamo facendo.

Se questi aspetti sono così fondamentali, come mai solo in pochi fra coloro che provano a «cambiare il mondo», dai politici, agli attivisti, ai decision makers, li prendono in considerazione?

Chi studia i sistemi ti spiega che queste sono le cosiddette qualità intrinseche dei sistemi, che rimangono invisibili come l’acqua è invisibile ai pesci. Sono elementi che tendiamo a dare per scontati, ai quali non prestiamo attenzione e ci immaginiamo che tutto sommato siano irrilevanti, mentre invece scopriamo, andando più a fondo, che sono determinanti. L’attivismo ambientale, così come qualsiasi altro tipo di attività che tenta riforme o rivoluzioni, tende a concentrarsi sulle parti più visibili e immediatamente percepibili dei problemi, senza percepire che esistono anche questi strati più profondi che sono determinanti. Tuttavia, esistono ormai diverse esperienze che cominciano a porre attenzione a questi elementi e a fare tanto lavoro di preparazione proprio su questo.

Qual è il percorso del movimento della Transizione da questo punto di vista?

Transition è partita proprio dall’analizzare i motivi per cui fino ad oggi tutti i movimenti che hanno provato a cambiare il mondo in chiave ecologica hanno fallito, capendo che uno dei problemi principali era proprio il cambiamento nell’essere umano. Gli esseri umani cambiano, modificano i propri comportamenti attraverso una serie di passaggi che non possono essere ignorati. Uno dei riferimenti del mondo della Transizione è il modello transteoretico di Di Clemente, un modello psicologico nato nell’ambito delle dipendenze ma utile in tutti i processi di cambiamento. Transition ha inserito questo elemento come un elemento portante: ci siamo preoccupati di fornire agli attivisti sia un modello teorico di riferimento che tanti strumenti di lavoro proprio sulla psicologia umana: strumenti di sostegno ai processi di cambiamento, tanta facilitazione, tanti processi che vanno a curare la sfera emotiva. Non a caso Transition ha tre pilastri: il primo è la testa, l’analisi logica, cognitiva di quello che succede nel mondo; il secondo è proprio il cuore, gli effetti psicologici ed emozionali che vanno gestiti nell’essere umano. Solo in fondo ci sono le mani, l’azione. Di fatto negli esperimenti su piccola scala questo processo funziona piuttosto bene. Ovvio, ci vuole tempo, tuttavia basta un numero relativamente esiguo di persone che si spostano in questa dimensione nuova per produrre effetti interessanti: pochissime persone possono determinare cambiamenti significativi, riscrivere leggi, influenzare modelli culturali.

Dice che i movimenti ecologisti hanno fallito, eppure ci sono anche casi di successo, ad esempio i Verdi tedeschi, che sono il secondo partito nazionale

Nel mondo reale, il successo ecologico si misura sugli effetti ecologici, non su quelli elettorali o di gradimento, potrei fare un lungo elenco e citare tutti i problemi esistenziali che dobbiamo affrontare oggi, mi limito alla crisi climatica e a quella della biodiversità. Per questi non sappiamo nemmeno se abbiamo già superato il punto di non ritorno: no, non hanno avuto successo. Lo so, non è bello da dire, ma non siamo più nelle condizioni in cui ci si può permettere di non capire cosa succede realmente.

Nonostante i bias la consapevolezza dei problemi ambientali sembra stia aumentando, come mostra ad esempio il movimento dei Fridays for future…

Abbiamo già sperimentato in passato diverse fasi di «risveglio», sono cicliche e spesso coinvolgono ampie aree della società. Fino ad oggi però, al risveglio, è sempre seguito un ritorno al sonno. Fridays For Future è una nuova opportunità, come Extinction Rebellion e altri «movimenti» che hanno il pregio di richiamare l’attenzione sul tema. Sarebbe fondamentale non sprecare quest’ultima onda. E, paradossalmente, aiutare gli attivisti a riconoscere ed evitare i bias potrebbe rivelarsi uno degli elementi strategici per produrre un risultati. Sto interagendo con i giovani coordinatori di questi movimenti in Italia e vi assicuro che i bias sono tutti lì a depotenziare la loro fantastica energia d’azione.

Insomma, alla fine la chiave del cambiamento sta nel cambiare il nostro modo di pensare?

Già, sarà banale, ma al di là dei massimi sistemi è importante imparare a pensare bene, che forse è l’unica buona pratica che esiste.

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