Nei suoi sette anni di vita americana – era sbarcata nell’agosto del 1942 da una delle ultime navi in fuga dall’Europa – Rachel Bespaloff condensa l’esperienza di un esilio cronico e definitivo.

Ebrea ucraina, cresciuta a Ginevra, sbocciata a Parigi, Bespaloff patisce negli Stati Uniti lo strappo dalla patria intellettuale – la Francia – e l’estraneità verso quel «giovane Occidente» che intimamente non le corrisponde.

Mentre sull’altra riva dell’oceano si scatena la catastrofe, gli echi della guerra giungono attutiti sul suolo americano: «L’ostacolo qui, in questo grande e, per molti rispetti, mirabile paese, è il superficiale. È ovunque, come una muraglia liquida».

I testi editi e i molti inediti che compongono il secondo volume dell’opera omnia avviata in prima mondiale da Castelvecchi – Rachel Bespaloff, La sfida della libertà Gli anni americani 1943-49 (a cura di Claude Cazalé Bérard, Cristina Guarneri e Laura Sanò, pp. 394, € 35,00) modellano in altorilievo il profilo singolarissimo di questa filosofa ritrovata.

All’incrocio tra il dramma migratorio di un’intera civiltà ferita e l’astenia di una vita periferica (insegna letteratura francese alle giovani americane del Mount Holyoke College, in Massachussets), questa filosofa dell’esistenza dall’inconfondibile timbro metafisico percepisce intensamente il cambio di senso dell’epoca e si mostra risoluta a fronteggiarne col pensiero le questioni cardinali.

In primis la questione dell’identità ebraica. A forni crematori attivi e sotto la pressione di un nazionalismo aggressivo che drena le risorse religiose della diaspora, Bespaloff difende con ostinazione – anche contro i rabbini americani – un sionismo sui generis, che fa leva sul mandato biblico e profetico: «il riunirsi d’Israele sulla terra, con la sua struttura temporale, deve fare da preludio alla Nuova Alleanza».

Fusione di religioso e di nazionale, l’ebraismo si compie infatti nella relazione etica della nazione con un assoluto trascendente, in una santità collettiva che comporta la piena assunzione delle responsabilità terrene in cui si incarna la volontà divina.

Questa attitudine all’eccezione male si accorda con l’assimilazione, sia essa invocata dal singolo o dall’intero popolo che aspira a diventare un popolo come gli altri. Anche l’ebreo rivoluzionario – nella misura in cui attende una giustizia intesa come sicurezza collettiva e non come santità – pare a Bespaloff ostile alla rinascita di Israele: al pari dell’ebreo assimilato, «accetta la scomparsa degli ebrei in quanto popolo».

Il sionismo profetico di Bespaloff non si illude che la patria in Palestina possa risolvere la questione ebraica.

Il caso esemplare dell’ebreo francese che diventa oggetto di persecuzione benché aspiri a integrarsi nel modo più intimo e perfetto con la comunità francese, illumina la strana legge del destino ebraico nella dispersione: «ogni volta che in un punto qualsiasi del mondo il processo di assimilazione sembra in procinto di compiersi, la storia si inventa un cataclisma che annienta in pochi istanti il frutto degli sforzi di più generazioni».

La libertà di ogni singolo ebreo, in altri termini, dipende prima di tutto dall’affrancamento globale dell’intero popolo ebraico e reclama la sua decisione di cambiare il proprio destino.

Questa possibilità di mutamento e di avvenire risiede per Bespaloff in una concezione dell’istante in cui tempo ed eternità si toccano e la storia viene trascesa.

Nel punto culminante della bufera, quando la pressione della forza pare incontenibile, Bespaloff elabora una concezione dell’istante che mantiene aperta la possibilità del proprio compimento, garantendo all’esistenza la libertà che la storia le nega.

L’arte tragica ne esprime la forma esemplare. Ben più di un genere letterario, essa infatti «non è soltanto la collisione di una libertà in rivolta con la necessità, è anche lo svelamento del vero che ne deriva».

Bespaloff interroga in particolare il ritorno dell’eroe tragico, dopo che Proust e Joyce parevano averlo estromesso dalla letteratura: «Forse questa guerra, strappando contemporaneamente i legami della sicurezza esteriore e la trama dell’intimità più profonda, ha restituito alla tragedia la nudità e l’aridità in cui essa stabilisce la sua dimora».

Sono Le Mosche di Sartre e Il Malinteso di Camus a rinnovare le atmosfere del dramma antico, dove gli eroi possono affermare la propria libertà solo nell’atto che ne fa dei criminali. Ma, qui, nessuna dismisura viene punita: l’eroe non sottomesso viene proclamato innocente.

Per la prima volta nella storia, l’orgoglio umano regna incontrastato, la presunzione non ha più avversari, né interlocutori. E se, più di qualsiasi altro genere, la tragedia fa riferimento a un’esperienza tragica della realtà «e di quella realtà della realtà che è la guerra», Sartre e Camus hanno l’ardire di farla rinascere perché si sono nutriti essi stessi – nelle condizioni dell’occupazione e della Resistenza – di una filosofia dell’insurrezione che ha consentito di offrire al dramma prospettive metafisiche.

Più ancora di Sartre, da cui la separa una divergenza profonda sul ruolo dell’istante e della libertà, è Camus a mostrarsi fedele allo spirito della tragedia, inteso come applicazione del pensiero a una verità che non abbiamo cercato e con la quale non possiamo vivere.

È su questa soglia che lo spirito di rivolta deve fare appello alla poesia: non per nascondere questa verità, ma per costruire su di essa «un mondo diverso dal mondo», retto da leggi proprie, fedele alla propria libertà e capace di trasformare il caos in un oggetto di bellezza.