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Archeologi nei cantieri edili: paghe da fame e niente tutele«Serve una legge sul salario minimo se vogliamo condizioni normali di lavoro in un paese che afferma l’importanza del patrimonio culturale»: è la posizione della capogruppo 5S in commissione Cultura, Anna Laura Orrico, che ha partecipato ieri alla presentazione alla Camera dei risultati del questionario «Cultura, contratti e condizioni di lavoro» realizzato da Mi Riconosci. L’associazione aveva già realizzato un’indagine nel 2019 e poi ancora due negli anni della pandemia. L’ultima fotografa il settore a fine 2022.

Al questionario ha risposto un campione di 2.526 persone: il 76,1% donne; oltre la metà ha almeno la laurea triennale (15,1%) o la specialistica (39,9%), un ulteriore 10% la scuola di specializzazione. Quindi soprattutto donne e altamente formate ma, come vedremo, costrette alla precarietà, con diritti scarsi e paghe da fame. Il campione è stato diviso in tre categorie: disoccupati non oltre un anno, lavoratori dipendenti e liberi professionisti. Nel primo ambito, la disoccupazione è dovuta nel 44% dei casi al mancato rinnovo del contratto. Il 20% ha scelto di cessare la collaborazione e un ulteriore 11,25% di non rinnovare il contratto. Negli ultimi casi i motivi sono ambienti ostili, salari bassi, mancanza di tutele o di prospettive.

Il 68,7% del campione ha un impiego dipendente: il 30,21% in musei, il 16,2% in biblioteche, il 21,88% presso la Pa. Solo il 42% ha un contratto a tempo indeterminato, il 26,54% ha il tempo determinato. Da qui in poi le possibilità si moltiplicano tra stage, tirocini, Co.co.co., stagionali, apprendistato, interinale, a chiamata, a progetto, in nero. Solo il 6,1% ha il contratto di categoria, il federculture. Il 23,5% ha il multiservizi, il 3,3% i servizi fiduciari (dichiarato incostituzionale in più tribunali), il 12% il commercio, il 2,5 edilizia e così via. La conseguenza è che solo il 41% dichiara di svolgere mansioni che corrispondono a quelle del contratto. Un terzo del campione ha due o tre occupazioni. Perché? il 68,93% guadagna meno di 8 euro netti all’ora. Il 50,37% raggiunge meno di 10mila euro all’anno. Il 72,28% meno di 15mila.

Autonomi. Il 23% lavora per coop o imprese, il 26,7 non ha un committente principale. Circa il 40% ha rapporti con ministeri, università, la Pa in genere, fondazioni o società partecipate, Associazioni. Il 61% è a Partita Iva e il 29% utilizza la ritenuta d’acconto. Per il 63,8% è una condizione obbligata e infatti il 75,47% non stabilisce la propria tariffa e il monte ore. Il 40,2% guadagna meno di 8 euro nette all’ora. Il 60,43% ha più di due collaborazioni. Il 55,88% guadagna meno di 10mila euro all’anno. Le condizioni nell’ambiente di lavoro sono simili indipendentemente dal tipo di inquadramento: il 39,97% ha subito mobbing o è stato vittima di atteggiamenti intimidatori da parte del datore di lavoro o dai colleghi. Il 39% durante i colloqui ha dovuto rispondere a domande sulla vita privata. Solo al 32% è stato garantito il congedo di maternità/paternità.

Rosanna Carrieri di Mi riconosci: «Siamo a 30 anni dalla legge Ronchey che ha permesso esternalizzazioni e privatizzazioni. Un momento decisivo di peggioramento delle condizioni di lavoro nel settore dei Beni culturali». E Federica Pasini: «L’applicazione del contratto di settore è una condizione molto rara, ci sono lavoratori dipendenti costretti a fare uno o due “lavoretti” per vivere e autonomi con una sola collaborazione che quindi maschera un lavoro dipendente. Il sottoinquadramento è quasi la regola».

Chi ha partecipato al questionario ha raccontato la sua storia: «Sminuiti e ridicolizzati per aver richiesto un bagno chimico in un sito della durata di più di 2 mesi, per aver domandato un gazebo sotto cui ripararsi a ferragosto». Oppure: «Mi volevano obbligare a scavare le tombe con mezzo meccanico. Al mio rifiuto mi hanno chiuso il contratto». E poi: «Costretto a lavorare in sala con temperature di 13 gradi, senza che la cooperativa fornisse nulla per ripararsi dal freddo». Infine: «Progetto di digitalizzazione presso Archivio di Stato, pagata 2 centesimi a scansione. Ero assunta da un’impresa che aveva vinto la gara, per assicurarsi che facessi il lavoro si tenevano il 10% di ogni stipendio, che mi avrebbero ridato alla fine del contratto. Ho avuto i calcoli renali, mi hanno chiamata mentre ero in ospedale per dirmi che ero sotto produzione».