Il prologo in un’immagine. Hanoi, Vietnam del Nord, dicembre 1966: nel bel mezzo dell’escalation bellica Enrico Berlinguer, a capo della delegazione del Pci volata in Asia a sostenere i vietnamiti, porge a Hồ Chí Minh un omaggio, un disco pubblicato pochi mesi prima dal Nuovo Canzoniere Italiano, Bella Ciao.

Titolo che per gran parte del pubblico contemporaneo si riferisce soltanto all’inno partigiano per eccellenza, ma che in realtà indica almeno altri due oggetti culturali: lo spettacolo ideato da Roberto Leydi e Filippo Crivelli — portato in scena dallo stesso Nci con tribolatissimo debutto al Festival dei Due Mondi di Spoleto del 1964 — e l’album che lo mediatizza, uscito l’anno dopo per i Dischi del Sole. Lo stesso portato in dono al leader vietnamita.

Jacopo Tomatis, foto twitter

ORA QUEL TITOLO campeggia anche su un libro, edito per la collana 33⅓ Europe di Bloomsbury Academic, che per la prima volta analizza la lunga ricezione di Bella Ciao restituendone il contesto e mettendone in crisi il mito.

Ne è autore Jacopo Tomatis, tra gli esponenti di spicco della nuova leva musicologica internazionale. Nessuna nostalgia, nelle sue parole, piuttosto un’esigenza documentaria verso «un oggetto culturale mitizzato dalla sinistra italiana, per il quale mancava però — a eccezione forse della canzone — un vero lavoro di archivio. Alcune cose erano state ignorate dall’etnomusicologia del tempo, altre, al contrario, esaltate dalla critica militante. Era ora che un’altra generazione prendesse in mano quelle cose, anche per mettere in dubbio alcune verità».

Nel saggio le analisi dell’autore e le contestualizzazioni nelle varie epoche

Verità a lungo dissipate in narrazioni mitologiche la cui costruzione è tra gli aspetti salienti indagati da questo saggio, specie in merito ai noti incidenti di Spoleto che richiamano immancabilmente alla memoria le proteste dei giornalisti e fotografi di destra e le urla sdegnate della famigerata contessa: «Io possiedo trecentotrenta contadini e nessuno dorme nelle stalle!» (in risposta al verso «e nelle stalle non vogliam più morir» dal canto E per la strada gridava i scioperanti).

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«Il mito di Bella Ciao ha le sue peculiarità, che in parte rispecchiano quelle della cultura politica del tempo», spiega Tomatis: «Il dibattito sulla canzone nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta ha intensità e categorie uniche al mondo, e Bella Ciao ne è il mito fondativo».

D’altra parte, alla base di questa costruzione mitologica c’è un meccanismo della memoria applicabile a tante altre storie inerenti alla popular music: «Pensa a Woodstock, per esempio. C’è una serie di elementi forti che tutti ricordano, anche se non c’erano né hanno mai visto il film: pace e amore, Hendrix che suona l’inno americano… nel caso di Spoleto alcuni avvenimenti salienti sono stati riformulati in forma di mito, per dimostrare un assunto base di tutto il discorso sulla musica politica in Italia: le voci del popolo sono esse stesse un fatto politico e hanno un valore antagonista in sé. In questo senso Bella Ciao è la profezia che si autoavvera: concepito per dare scandalo, ha dato scandalo, e il mito lo ha evidenziato. Poi uno va a leggersi le recensioni e scopre che lo spettacolo piaceva anche al Corriere della Sera perché portava in scena le voci di una volta, i contadini, tutto un mondo bucolico…».

Con serietà storiografica, Tomatis riporta alla luce le mille sfaccettature di un apparente monolite, questionando lo stesso concetto di folklore teorizzato da Gramsci come concezione del mondo di strati sociali immuni alle moderne correnti di pensiero e riformulato in chiave progressista e resistente da De Martino.

Al folklore di Bella Ciao non importava affatto essere espressione di un territorio, piuttosto di un’identità di classe che superasse la dimensione locale

«LA PECULIARITÀ italiana parte dall’idea che il folklore sia la musica delle classi subalterne e che abbia valore in quanto tale: siccome la cultura subalterna è antagonista a quella dominante, il folk è musica antagonista. È una filosofia complessa, ma spesso è stata tagliata con l’accetta da studiosi e militanti».

Soprattutto quando si parte dai paradigmi di chi vede nel folk un recupero romantico delle radici e del territorio: «Al folklore di Bella Ciao non importava affatto essere espressione di un territorio: doveva interpretare piuttosto un’identità di classe che superasse la dimensione locale. E non aveva neanche interesse a competere con la modernità: era già moderno, e le voci operaie e contadine di cui era espressione erano voci vive».

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Di simili contraddizioni, gravide di ripercussioni sul contemporaneo, è pieno anche il rapporto tra antagonismo, autenticità e media sonori, questi ultimi ritenuti alternativamente oppio dei popoli e strumento di emancipazione degli stessi. Specie in un Paese in cui, anche dopo la Liberazione, l’Eiar-Rai prosegue con noncurante continuità mantenendo in carica le stesse figure dirigenziali promosse in epoca fascista. «Di fronte a tutto ciò la sinistra italiana di matrice adorniana reagisce contro i media corruttori, parte della cultura dominante da ribaltare. Ma i contenuti antagonisti che portano avanti il suo discorso sono figli degli stessi mass media: la canzone politica parte dall’idea di sovvertirli, ma lo fa producendo dischi, oggetti di quella stessa cultura di massa. I quali, secondo il Nuovo Canzoniere Italiano, sono un mezzo per ridare voce a una cultura orale che non possiede gli strumenti di comunicazione della cultura dominante, ossia la scrittura. Se ci pensi non è molto diverso da ciò che avviene oggi sui social, con il dissenso che passa attraverso gli stessi canali criticati. È l’essenza della popular culture».

L’ESSENZA di questo lavoro, invece, «è proprio nel ribadire l’importanza della registrazione, del disco come oggetto. È ciò che maggiormente mi premeva come studioso di popular music. Tutti hanno mitizzato Bella Ciao come inno di resistenza, in molti nell’ambito del folk revival hanno mitizzato lo spettacolo. Ma entrambi sono rimasti nella memoria collettiva grazie alle registrazioni. È merito del disco, se sono entrati nella vita dei militanti di quella generazione e delle successive. Questo non era mai stato sottolineato abbastanza».