Beatrice, una bambina davanti allo specchio di sé
NARRATIVA «Nel rumore del fiume», di Franca Cavagnoli per Polidoro
NARRATIVA «Nel rumore del fiume», di Franca Cavagnoli per Polidoro
Quando qualcuno la bacia, poco dopo si asciuga la guancia con la manica del vestito o del grembiule. Questo perché Beatrice, protagonista dell’ultimo libro di Franca Cavagnoli (Nel rumore del fiume, Polidoro, pp. 250, euro 17) è una creatura tendenzialmente forastica, al pari di chi, prima di arrivare all’età adulta, attraversa il mondo con quella punta di sottile cautela – mista a ostilità – tipica dell’infanzia. Si difendono le bambine e si protegge anche lei, nella maniera attonita e a tratti mutacica che segue un trauma. Per Beatrice il taglio è la morte della madre.
CONOSCIAMO LA SUA VOCE interiore, i suoi occhi pieni di rubini, gazze ladre e poesie a memoria, grazie alla capacità di Cavagnoli di immergersi in un continente incandescente e di difficile accesso che è l’infanzia raccontata da chi piccola non è più eppure è ancora grata a quel senso antico di inaddomesticato. Il testo è composto di brevi passi in prosa e ciascuno di essi segue l’andirivieni di una sofferenza così acuminata da non essere pensabile intera. Perché il dolore oltre a spaccare, corpi e relazioni, frange letteralmente la trama e predilige la sineddoche, insieme alla brevità. Ciò che sta nello scacco linguistico resta indicibile, non consente di trovare una spiegazione, lo scampo è allora un incedere poetico in cui le dimensioni temporali si affastellano, fino a rincorrersi e poi a stendersi.
Beatrice sta (almeno) in due luoghi, il primo è di là dell’Adda, il secondo più a sud dove continua a vivere, presa in carico da Mina, Carol e altri, lo spaesamento dettato dalla orfanità.
È però con lo zio Francesco che si appassiona alla lettura e alla pazienza dell’ascolto, per esempio durante l’intenso incontro con il libro di Qohélet. Sembra quasi esserci una somiglianza tra la pensosità silente di Beatrice e quel testo biblico, come a voler indicare che se ogni cosa ha la sua stagione e se c’è un tempo per ogni cosa, esiste la possibilità di radunare sé stessi anche dopo una perdita così deflagrante.
FRANCA CAVAGNOLI, traduttrice raffinatissima e scrittrice che ha pubblicato diversi romanzi tra cui Una pioggia bruciante (2015, 2000), Luminusa (2015), Non si è seri a 17 anni (2007) e il saggio La voce del testo (2012) e che, l’anno scorso per Orecchio Acerbo, ha dato alle stampe l’albo illustrato La Bocca dell’Adda, con le illustrazioni di Giovanni Emilio Cingolani, ci conduce con grazia e levità in una narrazione inanellata di ricordi, simili a brevi e fugaci resurrezioni, insieme alle apparizioni mostruose, soprattutto la notte, e a una dedizione non comune per le parole. Sono queste ultime le impunture di un rammendo imparato anni prima con sua madre. Che lei riconosce non nel lamento bensì in una scena dell’origine mutevole che riluce dallo schianto di una fine al principiare di una riva. Seguendo il battere delle ciglia, una mattina qualsiasi davanti allo specchio, quando si accorge che chi l’ha messa al mondo sopravvive nel rumore del fiume, e nel suo sguardo stupefatto di donna.
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