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Baumgartner, un culto fatto di ebbrezza, condivisione, speranza

Baumgartner, un culto fatto di ebbrezza,  condivisione, speranzaIlya Schor, Dallo Shtetl, 1930

Ebrei di oriente Attorno alla figura di Baal Shem Tov Jean Baumgartner ricostruisce il tracciato di luoghi, santi, teorie, conflitti e interessi legati a una corrente del culto ebraico: «La nascita del chassidismo», da Mimesis

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 26 giugno 2022

Il movimento chassidico nasce dalla protesta e dal dolore. Ha alle spalle gli sconvolgimenti di un secolo, il XVII, che tra guerre di religione e false speranze ha conosciuto tutta la fragilità dell’esistenza e, nella polarizzazione tra deismo ed esoterismo, ha cercato di opporsi a una religiosità fatta di norme e di obbedienza. In questa crisi, cristianesimo ed ebraismo si incontrano per qualche decennio nella critica radicale a quella che i pietisti tedeschi chiamano «la chiesa di pietra» e nella ricerca di una inedita «chiesa del cuore» che fosse amorosa, suggestiva, ricca di umori e speranze.

Le strade presto si separano: nei paesi protestanti, e in Germania in modo particolare, si forma una élite intellettuale che rinuncia alla pietà tradizionale, sposa il romanticismo e si confronta con i fermenti rivoluzionari. Tra gli ebrei di Oriente, si dà vita invece a un movimento grandioso e ramificato con nuove scuole, nuove guide e una potente ripresa di temi mistici e cabbalistici che donano un senso glorioso all’esistenza umana sulla terra e al rapporto con il Creatore.

È una rottura profonda che contrappone animi e comunità: a fine settecento vi sono inutili scomuniche e si crea una distanza tra i chassidim e «gli altri» destinata a radicalizzarsi con la assimilazione, l’illuminismo, l’adesione di gran parte degli ebrei occidentali ai miti della modernità.

Da Scholem a Buber
Gershom Scholem, alla ricerca di continuità e coerenza nella storia ebraica, vede nel movimento chassidico l’ultimo erede della dottrina esoterica di Isaac Luria, rabbino, mistico e cabbalista vissuto a Safed in Galilea nel XVI secolo. Per lui l’uomo è chiamato a sanare con la preghiera, l’ascesi, la carità, gli effetti negativi della creazione e della dispersione della luce divina; il fedele cercherà allora di ristabilire l’equilibrio dell’universo innalzandosi verso il Signore con tutto se stesso eliminando ogni ‘ombra’ dalla sua vita.

Per gli antropologi del sacro, da Buber a Heschel, il chassidismo rappresenta invece una risorsa vitalistica per le crisi della modernità: «Il mio scopo non era spiegare, ma guardare, cogliere e tratteggiare» scrive Heschel ad apertura del suo sentimentale libro sul chassidismo, la Terra è del signore. Vedono nel chassidismo la perfetta interazione tra «mistica ed ethos», esaltano il comandamento della gioia e idealizzano quella dimensione positiva e comunitaria che affascina gli appassionati lettori di romanzieri yiddish, da Sholem Aleichem a Singer, e che si ritrova bonaria e umanissima in serie televisive recenti, come Shtisel o Unortodox.

Il libro monumentale di Jean Baumgarten, La nascita del Chassidismo (Mimesis, pp.726, € 40,00), tradotto e curato con sapienza da Silvano Facioni, non prende posizione in questo dibattito tra tradizione e modernità né si fa contagiare dalla storia personale – il chassidismo «nel sangue» di cui favoleggia Buber nelle Leggende del Baalshem – che pure ha influenzato gran parte degli studiosi. Con autorevolezza e neutralità ricostruisce l’intero tracciato di luoghi, di santi, di teorie, conflitti ed interessi dando una immagine in fondo semplice e lineare. di un movimento così ricco di difformità.

Lunga e piana l’introduzione che riporta il dibattito critico, la geografia di un movimento diffuso dalla Polonia alla Russia ‘bianca’, in uno spazio governato da forme diverse di arbitrio e precarietà, e la collocazione storica del movimento. Come aveva già suggerito Julien Bauer nella sua Storia degli ebrei chassidici del 1994, Baumgarten ne segue evoluzione e varianti evitando di darne una visione armoniosa e uniforme e, in nome di queste differenze, si interroga sul contributo del chassidismo alla nascita di una modernità ebraica, considerandolo componente essenziale, almeno quanto il razionalismo e l’illuminismo ebraico, la Haskalah.

Al centro del suo volume, Baumgarten colloca la vicenda del capostipite al quale aveva già dedicato nel 2020 Le Baal Shem Tov. Mystique, magicien, guérisseur destreggiandosi abilmente tra fonti e leggende.

Come altri fondatori di movimenti spirituali – che siano di Buddha, Rûmî, Gesù o Confucio – anche Israel ben Eliezer, chiamato Baal Shem Tov, il Maestro del Nome di Dio (1698 o 1700-1760), ha una biografia in cui invenzione e realtà si confondono tra narrazioni orali, appunti copiati e variati, una congerie di testi diversi che portano alla creazione di una figura mitica.
Di lui si racconta che fosse uno studente mediocre, che alla sinagoga e alla scuola, lo heder, preferiva i boschi dove «meditare e godere delle meraviglie del creato». Orfano e poverissimo, aveva deciso di vivere in solitudine con la moglie nei Carpazi e, tornato nel mondo, aveva iniziato la sua azione di medico e taumaturgo, mentre attorno a lui si raccoglievano i primi adepti, spesso poveri e ignoranti.

Seguendo la storie fiorite intorno alla sua figura, i seguaci individuano un modo nuovo di considerare l’autorità religiosa, il potere teopolitico, la vita dei fedeli. «Si muovono – scrive Scholem – nella esperienza del risveglio, nella spontaneità del sentimento». Alle loro guide spirituali non chiedono diplomi, ma carisma, vicinanza umana e spirituale e la capacità di farsi intermediari tra il mondo terreno e il mondo celeste impegnando il Signore a rispondere positivamente alle loro preghiere.

Questi ’santi’, gli zaddikim, «pilastri del mondo» e «canali attraverso i quali scorre la grazia divina» hanno inoltre il compito di garantire con saggezza, finezza psicologica e un pizzico di «magia» il benessere dei fedeli, la guarigione dalle malattie, la fuga dai pericoli di un mondo ostile, matrimoni convenienti e una nutrita prole. Attorno a loro si sviluppa un culto fatto di ebbrezza, condivisione e, soprattutto speranza: dopo la morte del Baal Shem Tov si moltiplicano i maestri e i centri di irradiazione; gli zaddikkim semplici o colti, ricchi di denaro e potere, grandi organizzatori o ascetici e proverbialmente umili, seguono l’insegnamento del ‘maestro’ «tra obbedienza e rottura» e riescono a consolidare e a diffondere ulteriormente il movimento con l’emergere di una nuova leadership, la sedentarizzazione del rebbe, la strutturazione della corte chassidica, i rituali e le lotte «politiche» e dottrinarie.

Verità nascoste
In questa proliferazione, narrare le ‘gesta’ dei ‘santi’ attraverso corpora sempre più ampi e articolati fa da collante al movimento. I racconti sui santi rabbini contengono infatti per i fedeli verità sostanziali, indicazioni religiose e anche etiche profonde.

Anche nelle storie più semplici, in una vicenda banale o in una sola frase, vi sono verità nascoste e una stratificata pedagogia. Sono «abiti», o, per riprendere il vocabolario della Kabbalah, «scorze o rivestimenti» in cui si nascondono nuclei mistici profondi altrimenti inattingibili. «Chi racconta storie in lode degli zaddikim – è scritto nella raccolta Shivche ha-Besht del 1815 – è come uno che si occupasse della Merkavah» di speculazioni mistiche ed esoteriche.

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