Economia

Banche da legare

Banche da legareLa banca Icbc di ghiaccio realizzata all'Harbin Ice and Snow Festival in Cina

La Fed acquista debito pubblico americano, così fanno anche gli inglesi e i giapponesi. La Bce è invece bloccata dai vincoli europei. Nel vecchio continente la finanza domina incontrastata e le lobby esultano. Gli istituti di credito non fanno più il loro mestiere e le periferie collassano

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 14 febbraio 2014

Mentre a Bruxelles e Francoforte si continua a discutere di indefinite e «infalsificabili» riforme strutturali per risolvere gli squilibri macroeconomici e finanziari causati da trent’anni di ideologia neoliberista e pessimo senso dello Stato, nei circoli della grande finanza si sente parlare sempre più di «tapering» e dei rischi che questo possa comportare per l’economia globale e I mercati emergenti.

Ciò che si vuole gradualmente ridurre (per l’appunto «tapering»), è un programma di acquisto di titoli di stato americani da parte della Federal Reserve – la banca centrale americana – volto a sostenere l’economia domestica, la casse dello stato e l’occupazione. Sembrerà strano a chi legge la stampa italiana, ma tutte le principali banche centrali del mondo, dalla Banca d’Inghilterra alla Fed, alla Banca del Giappone, stanno da diverso tempo acquistando quantità massicce di debito pubblico o garantito dal pubblico nel mercato secondario. Tutte ad eccezione della Banca Centrale Europea.

Risale a circa un anno fa il conciso comunicato con cui la Federal reserve annunciava che avrebbe acquistato debito pubblico americano e mortgage-backed securities al ritmo di 85 miliardi di dollari al mese finché il tasso di disoccupazione sarebbe rimasto sopra il 6,5% e le aspettative di inflazione ancorate attorno al 2%. Dall’adozione del programma a oggi, il tasso di disoccupazione negli Usa è diminuito dall’8% al 6.6%, la crescita economica è rimasta attorno al 2% e l’inflazione scesa all’1,5%. Ecco perché si parla di tapering. Il programma ha funzionato, le prospettive di crescita negli Stati Uniti sono il doppio che da noi in Europa, l’inflazione saldamente sotto controllo e potrebbe non esserci più bisogno delle misure speciali adottate in tempi di crisi.

In Europa, al contrario, la sola cosa che la Banca Centrale Europea ha saputo o potuto fare è stato inondare le banche di liquidità attraverso operazioni di rifinanziamento a lungo termine, il cosiddetto programma di long term refinancing operations.

All’incirca mille miliardi di euro sono stati prestati alle banche a tasso di favore, mentre gli Stati stessi faticavano a finanziarsi sui mercati e hanno pagato tassi proibitivi. L’improbabile strategia di austerità e aiutini alle banche improvvisata dai banchieri di Francoforte ha fallito persino nell’obiettivo di rendere il debito dei paesi in difficoltà più sostenibile, il sistema bancario meno frammentato, o le economie più competitive.

Quel che è peggio, questa politica è stata accompagnata da una sadica e controproducente richiesta di austerità ai governi da parte della Bce, cosa che la Fed non ha mai fatto in casa propria. Al contrario, nonostante il deficit statunitense fosse ben superiore a quello europeo, Ben Bernanke ha sempre considerato la politica fiscale americana restrittiva.

È dunque in parte questo il senso del deficit statunitense, ben due volte quello europeo negli ultimi sei anni. Ed è questo il senso dell’acquisto di circa 3.700 miliardi di dollari di titoli di stato americani e mortgage-back securities da parte della Fed dal 2008 al 2013. Una cifra pari a circa due volte il Pil italiano, poco meno di un quarto dell’economia americana. Ma la Fed non è sola. Tra marzo 2009 e febbraio 2012 la Banca d’Inghilterra ha acquistato 345 miliardi di dollari di titoli di stato del Regno Unito, ancora una volta una cifra pari a un quarto del Pil inglese. Nell’aprile 2013, anche la banca del Giappone ha annunciato che avrebbe acquistato titoli di stato giapponesi al ritmo di 50 trilioni di yen all’anno, pari a circa il 10% del Pil giapponese.

Per contro, la Banca centrale europea ha acquistato titoli di stato per soli 220 miliardi di euro, una cifra di poco sopra il 2% del Pil dell’eurozona.

Lo stesso programma Omt voluto da Mario Draghi, che prevede il possibile acquisto di titoli di stato da parte della Bce (ma a dure condizioni), non è mai stato attivato. A seguito delle 40 pagine di sentenza della Corte Costituzionale tedesca pubblicate la settimana scorsa, inoltre, non è neanche chiaro se potrà essere efficacemente utilizzato una volta che la corte di giustizia europea si sarà espressa a riguardo.

Se temi come questi, dunque, c’è ancora tanto lavoro da fare in Europa. Una prima necessità è l’istituzione di un chiaro mandato duale per la Banca centrale europea – stabilità dei prezzi e massima occupazione – sulla traccia del mandato della Federal Reserve. In secondo luogo, un target d’inflazione innalzato temporaneamente al 3%-4%, come suggerito – tra gli altri – dal capo economista del fondo monetario internazionale Olivier Blanchard già nel 2010, rappresenta la strada più sicura per aumentare l’occupazione e il potenziale di crescita, assicurare la sostenibilità fiscale dei paesi ancora solventi e ribilanciare gli enormi squilibri di partite correnti all’interno dell’eurozona in un lasso di tempo accettabile.

Ma anche il dual mandate e un target d’inflazione più alto, per quanto assolutamente necessari ora, non saranno sufficienti a far funzionare l’euro nel medio termine. Per quello ci vorrà una maggiore integrazione economica, fiscale e politica. Al tempo stesso, queste non potranno essere raggiunte se la Banca centrale europea si rifiuta di operare da stabilizzatore di ultima istanza e si rifiuta di spegnere il pericoloso incendio che minaccia le fondamenta dell’intero edificio europeo. In questo senso, le prossime elezioni europee possono essere l’occasione per dar inizio ad un cambiamento vero in Europa, a cominciare da una profonda riforma in chiave democratica del mandato della Banca centrale europea.

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