Il governo greco e tutti i mezzi d’informazione hanno seguito il lungo periodo pre-elettorale in Turchia con la speranza che Erdogan ne uscisse vincitore. Il loro ragionamento era semplice, anche troppo: si sa chi è e cosa vuole. Rimane nella Nato ma nei suoi deliri di grandezza si è staccato dall’Occidente, ha litigato con Washington, ha fatto fallire i negoziati con l’Unione Europea, mentre in Ucraina tiene il piede in due staffe.

Questo atteggiamento arrogante di Erdogan si ritiene un vantaggio per la Grecia: meglio avere contro un personaggio simile, ritenuto «isolato», piuttosto che l’ignoto Kilincdaroglu, che non ha mai spiegato bene la sua politica estera.

Ragionamenti campati in aria, buoni per un’opinione pubblica disinformata e credulona, come si è visto nelle recenti elezioni greche, ma anche per un governo di assoluta fede atlantica. Ora che Erdogan è uscito trionfatore dalle urne, si è immediatamente attivato il progetto che Washignton aveva presentato ad Atene e Ankara molto prima delle scadenze elettorali. Ancora una volta gli americani puntano su un passo indietro greco per tenere buono il «sultano».

Si accetta il rifiuto di Ankara di ricorrere alla Corte internazionale, si rimanda la definizione della Zona economica esclusiva (Zee) nell’Egeo e si lascia sul tavolo la stramba teoria turca secondo cui l’isola di Creta non disporrebbe di piattaforma continentale né di Zee. Al posto delle leggi internazionali si punterà a una soluzione «realistica», «facilmente applicabile in questo periodo di crisi energetica»: si sceglie una zona contestata e rivendicata dai turchi (la Grecia non ha pretese su zone marittime turche) e la si concede a una multinazionale energetica per spartire a metà gli introiti dello sfruttamento del fondo marino. Una maniera per premiare le passioni espansioniste e i deliri imperiali di Erdogan, che già ora rivendica expressis verbis la metà dell’Egeo.