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Ateliers Sahm, l’arte nuova riparte da sé

Ateliers Sahm, l’arte nuova riparte da séUn lavoro di Bill Kouélany

Intervista Un incontro con Bill Kouélany, artista che vive e lavora a Brazzaville e organizza l'off della Biennale a Dakar. E in Congo gestisce un centro per i nuovi talenti

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 2 giugno 2018

L’esposizione è nel basamento di cemento armato di un edificio. L’allestimento è spartano. Ma quello che conta è che dei giovani della Repubblica del Congo e del Mali hanno l’occasione di esporre a Dak’Art, e alcuni di essere a Dakar con le loro opere. Alle spalle della mostra non c’è una galleria: l’iniziativa è di Bill Kouélany, una artista che vive e lavora a Brazzaville che dal 2014 organizza nell’Off della Biennale una mostra dei talenti che aiuta a formarsi e a emergere.
«Ho partecipato diverse volte a questa rassegna – racconta – l’ultima è stata una decina di anni fa: ho ricevuto premi e ho realizzato che fosse necessario fare qualcosa per le generazioni nuove, in modo che si potesse parlare di arte contemporanea nella Repubblica del Congo. Così, nel 2012 a Brazzaville ho dato vita agli Ateliers Sahm, per accompagnare dei giovani artisti, non solo della Repubblica del Congo, e ogni settembre organizzo un festival a cui partecipano decine di artisti di diversi paesi del continente insieme ad autori locali. Per me, questa rappresenta anche l’occasione per scoprire talenti e ragionare su chi poter presentare alla Biennale successiva: tutti gli artisti che ho portato a Dak’Art li avevo prima invitati al mio festival. Mi interessa che a Dakar arrivino non solo le opere ma anche i loro autori, in modo che possano fare esperienza, incontrare persone, vedere i lavori degli altri: è questo lo scopo».

Un’attività di questo genere a Brazzaville è tutt’altro che facile. Dev’essere un miracolo anche organizzare una cospicua presenza a «Dak’Art»…
La situazione è forse anche più difficile di qualche anno fa. In Congo c’è crisi, quello che funziona è il petrolio e il barile è andato giù. Cerco di continuare, perché lo considero un buon progetto e si raggiungono sempre risultati soddisfacenti. Ma non ho un budget. Dal 3 al 23 settembre ci sarà il festival, e al momento non ho ancora assolutamente niente: è sempre un’avventura. Ci sono persone di buona volontà che aiutano: per esempio, un mecenate svizzero che offre borse di studio, e c’è la Fondation Blachère nel sud della Francia. Adesso, dopo sette anni, mi piacerebbe avere un partner che accompagni veramente il centro, dandoci un po’ più di sicurezza: non serve un partner grosso, perché non chiediamo molto, ma questo cambiamento mi permetterebbe ogni mese di avere un piccolo budget.

Cosa può rappresentare oggi la scuola di Poto-Poto a Brazza?
È una accademia di arti figurative, con un’impronta molto precisa, e non permette più di tanto di uscire da quello stile: Poto-Poto è una specie di marchio. E quando qualcuno vuole tentare delle altre soluzioni, in generale la cosa non funziona, perché viene limitato. Posso dire che a Brazza l’arte contemporanea è nata con la mia attività di artista e con gli Ateliers Sahm. Per molto tempo ho agito in completa solitudine. Alcuni giovani, che erano a Poto-Poto, quando hanno sentito il bisogno di fare qualcosa di diverso – anche performance, installazioni – sono venuti agli Ateliers Sahm.

A «Dak’Art» ogni volta fa dialogare il suo paese e un altro…
Nel 2014 i due Congo, Repubblica del Congo e Repubblica Democratica del Congo. Nel 2016 Congo e Camerun. Questa volta Congo e Mali, ma ho voluto portare anche artisti delle edizioni precedenti, quindi RDC e Camerun, e allestire qualcosa di diverso: ho pensato di non portare alla Biennale solo artisti visivi, ma anche danzatori, attori, slammer, tutti giovani che inquadro a Brazza: il centro è pluridisciplinare, è uno spazio in cui si scambiano esperienze, è importarte aprirsi al viaggio, dà loro la possibilità di crescere.

Nella presentazione della mostra di quest’anno si parla di estetiche condivise, al di là della geografia…
L’obiettivo da raggiungere è che i giovani comunichino fra loro condividendo sogni, visioni, ricerche, poetiche, poco importa il paese di provenienza. Quello che è più importante è ciò che si custodisce dentro di sé, il proprio bagaglio interiore. Sono giovani che appartengono al mondo contemporaneo, quindi molte delle cose che finiscono nella loro arte possono essere intrecciate, ed è questo che li unisce, malgrado le differenze.

Alcuni artisti emergenti che hanno partecipato a queste esposizioni hanno poi avuto dei riscontri significativi. È stato così?
Due giovani presentati nel 2016 sono ora nella Biennale internazionale di questa edizione: Yvon Ngassam, camerunese, e Paul Alden Nvoutoukoulou, congolese. Nel 2014 avevo portato Eddy Ilunga Kamwanga, della RDC, che viaggiava per la prima volta: adesso è molto conosciuto e sta facendo carriera.

Grazie a lei alcuni artisti hanno potuto andare per diversi mesi in Francia e in Svizzera, ma continuano a vivere in Africa. Considera importante il ritorno?
Ritengo sia importante «uscire» e poi saper riprendere la strada del ritorno: ovviamente ognuno ha il diritto di fare quel che vuole, ma ciò che cerco di far capire è che quando si parte bisogna sapere dove si va, che cosa si desidera realizzare. Io ho girato molto, Germania, Canada, Stati Uniti, Cina, ma sono a Brazza con loro. Viaggiare serve, quando non si parte si rimane in uno stato di chiusura, ma si può sia viaggiare che costruire qualcosa in Congo. Credo che lo comprendano, ed è per questo che quando riesco ad avere i visti per loro, partono e poi ritornano.

 

DAK’ART

Da manifestazione che agganciava una nicchia specializzata di addetti ai lavori e di pubblico ad appuntamento non marginale all’interno del circuito globale delle biennali: l’aspirazione a questo passaggio percorreva già l’edizione 2014 di Dak’Art e il salto ha cominciato a concretizzarsi con la nomina nel 2016 a direttore artistico della Biennale della capitale senegalese di una figura ampiamente accreditata a livello internazionale come il critico e curatore camerunese Simon Njami, riconfermato poi per il 2018. Che il tentativo avesse funzionato, nei primi giorni della 13/ma edizione lo si poteva vedere dalla quantità e dalla composizione dei frequentatori dei vernissage delle esposizioni ufficiali come delle più significative fra le tantissime mostre del circuito «off» sparse nella città (oltre duecento, senza contare quelle nella banlieue, a Saint-Louis e in altre regioni). C’è però un problema di fondo. Tanto l’esposizione internazionale, consacrata fondamentalmente ad artisti africani o della diaspora, allestita all’Ancien Palais de Justice, quanto quella affidata a cinque commissari di diverse nazionalità (Svezia, Hong Kong, Camerun, Messico, Marocco), ospitata al Musée de l’Ifan, oltre ad apparire complessivamente meno convincenti di quelle del 2016 hanno riproposto la sensazione di una certa evanescenza nelle scelte rispetto al tessuto di creatività del continente: probabilmente per un eccessivo condizionamento delle tendenze dettate dal mercato dell’arte contemporanea, a scapito della ricerca di talenti e novità sul terreno, che dovrebbe essere la vocazione di Dak’Art.
Tra le proposte ufficiali anche tre padiglioni nazionali, dedicati al Senegal e a due paesi ospiti, Ruanda e Tunisia: qualificato e ben allestito quest’ultimo, ma purtroppo poco più che uno stand di promozione turistica quello ruandese, abborracciato e del tutto inadeguato a rendere conto dell’alto livello dell’arte contemporanea senegalese quello del paese ospitante.
Per una capitale che ha l’ambizione di far emergere a livello internazionale la propria Biennale rimangono irrisolte le questioni dell’assenza di un museo consacrato all’arte contemporanea, per il quale si era parlato, appunto, dell’Ancien Palais de Justice, e della impossibilità di vedere stabilmente rappresentata l’evoluzione dell’arte senegalese moderna. Consola che siano almeno finalmente accessibili a Dakar alcuni importanti esempi dell’arte di Ousmane Sow, decano della scultura scomparso nel 2016, esposti nella sua casa, inaugurata come museo in occasione della Biennale. Altri due gravi lutti hanno colpito più recentemente l’arte senegalese: l’esposizione internazionale ha presentato una retrospettiva dello scultore Ndary Lo, mentre a Joe Ouakam ha dedicato performance e iniziative un gruppo di giovani che si richiamano all’indimenticata esperienza di Agit-Art di cui il pittore è stato il principale animatore.

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