A Washington il dipartimento di Giustizia ha annunciato martedì di aver proceduto ad un’azione antitrust contro Google chiedendo a un tribunale federale in Virginia di emettere un’ingiunzione affinché Alphabet, casa madre dell’azienda, cessi «pratiche anticompetitive» relative al mercato della pubblicità online. L’azienda di Mountain View controlla la gran parte delle vendite pubblicitarie in rete attraverso il proprio sistema di vendita di spazi e la collocazione in tempo reale sui siti, avvalendosi della posizione dominante per imporre ingenti tariffe sia ad acquirenti che ad editori di siti. Otto singoli stati si sono costituiti parte civile nella causa.

LE PIATTAFORME di Silicon Valley sono già state oggetto di recenti azioni antitrust, incluso da parte dell’amministrazione Trump e da stati come il Texas che nel 2020 ha intentato una causa, ancora in corso, contro il monopolio di Google sulle ricerche web. La causa di questa settimana rappresenta la prima del governo di Biden, che sin dall’insediamento aveva messo nel mirino l’oligopolio digitale. Nel darne l’annuncio, il procuratore generale Merrick Garland ha dichiarato che i monopoli nuocciono alla concorrenza su cui si fonda il libero mercato e che è nell’interesse dei consumatori.

A CAPO della Federal Trade Commission (Ftc) Biden ha designato Lina Khan, giovane economista specializzata in antitrust come ricercatrice alla Columbia University, col compito specifico di perseguire le pratiche monopolistiche nel settore. L’authority per il commercio è già intervenuta per bloccare l’acquisizione del colosso di gaming, Activision Blizzard, da parte di Microsoft e dello studio di realtà virtuale Within da parte di Meta (Facebook). La sua postura apertamente ostile al consolidamento industriale è naturalmente invisa ai giganti di “Big data” che denunciano l’eccesso di regulation come nociva per l’innovazione.
In realtà gli Usa hanno sempre avuto una postura assai liberista (e interessata) nei confronti del settore internet dominato da colossi americani, evitando finora ogni normativa di contenimento simili a quelle varate dalla Ue.

IL CLIMA potrebbe però essere in procinto di cambiare. La mossa contro Google è sintomatica di una crescente tendenza bipartisan a limitare lo strapotere delle piattaforme. I repubblicani hanno da tempo nel mirino le aziende che considerano politicamente faziose per la presunta discriminazione liberal contro voci di destra. Da canto suo l’amministrazione Biden persegue una politica di capitalismo “virtuoso” che oltre al sostegno dei sindacati, al onshoring (la rilocalizzazione degli impieghi e della manifattura su suolo nazionale) e la guerra commerciale alla Cina, prevede la limitazione dello strapotere di acquisito specificamente dalle corporation web e social e un maggior intervento statale nella “quarta rivoluzione industriale” spesso invocata dal presidente, assieme alla conversione energetica, come economicamente vitale. Lo scorso maggio democratici e repubblicani hanno congiuntamente presentato una proposta di legge (Competition and Transparency in Digital Advertising Act) che potrebbe obbligare le piattaforme – già padrone di dati e sistemi operativi – a disfarsi delle divisioni pubblicitarie.

Per Silicon Valley la questione si somma al trinceramento post-pandemico che ad oggi ha prodotto 200.000 licenziamenti – per ultimi i 10.000 annunciati da Microsoft la scorsa settimana – ed al problema del modello per una prossima fase di crescita, che attualmente vede ad esempio un repentino riorientamento dalla realtà virtuale all’intelligenza artificiale ( questa settimana Microsoft ha annunciato l’investimento di dieci miliardi di dollari in OpenAI, l’azienda produttrice di ChatGPT).

PER BIG TECH potrebbero quindi allinearsi segnali preoccupanti, oltre che dal governo federale e dai singoli stati, anche da una crescente insofferenza sociale alle pratiche del capitalismo della sorveglianza. La scorsa settimana, ad esempio, il distretto scolastico di Seattle ha presentato una querela contro TikTok, Facebook, Instagram, Snapchat e Youtube poiché con i loro social network «ledono la salute mentale dei ragazzi». Il distretto ha chiesto danni per le ingenti risorse che le scuole pubbliche sono costrette a dedicare all’assistenza per studenti vittimizzati dagli algoritmi. Nella denuncia si legge che i social impiegano sofisticate tecniche psicologiche potenziate da algoritmi specializzati per monopolizzare l’attenzione dei giovani e renderli dipendenti. L’assuefazione alle piattaforme coincide con una proporzionale incidenza di bullismo, e «l’assalto coordinato alle menti vulnerabili dei giovani ha prodotto un’emergenza di salute mentale», caratterizzata da tassi esplosivi di «depressione, ansia ed ideazioni suicide» a cui si trovano a dover far fronte amministratori ed insegnanti.