Tra il gennaio e l’agosto del 1916, Arturo Onofri (1885-1928) pubblica mensilmente su «La Voce» le sue Letture poetiche del Pascoli. Esse furono interrotte quando, nel settembre di quell’anno, la rivista cessa le pubblicazioni. Onofri non continua quei commenti pascoliani, e solo nel 1953, con una Prefazione di Emilio Cecchi e per cura di Girolamo Comi, saranno riuniti in volume e ristampati dalle Edizioni de ‘L’Albero’.

Coetaneo di Onofri, nel 1912, che è l’anno della scomparsa del poeta, Cecchi aveva a sua volta licenziato per l’editore Ricciardi di Napoli un saggio critico su La poesia di Giovanni Pascoli steso tra il 1910 e il 1911, il Pascoli ancora vivo, proponendosi di «raccogliere entro una sola linea il complesso della sua opera». E, di questo suo proposito a recingere la ricerca poetica pascoliana entro un cerchio concluso, pare Cecchi quasi chiedere scusa, ché il suo intento critico non è, dice, quello di chiudere, anzitempo, lo «scrittore nella sua bara». Ma tant’è. Come che sia, agli antipodi del modo tenuto da Cecchi («entro una sola linea il complesso»), Onofri conduce una lettura poetica d’ogni singola poesia di Myricae, una per una, un verso dopo l’altro, a saggiare le conseguenti aperture a una lirica nuova, le prospettive poetiche inedite che vi si delineano, operando, scrive Cecchi nella Prefazione, «una minutissima cernita della ‘poesia’ dalla ‘non poesia’ delle Myricae; come si direbbe con frase crociana».

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È che queste letture poetiche di Onofri risultano esemplari in punto di teoria, assurgono ad un livello paradigmatico e contengono indicazioni di non poco momento riguardo a capitali questioni di estetica. Sto a quel «minutissima cernita» di Cecchi. ‘Cernere’ è distinguere, individuare, scegliere, vagliare. E questo è il procedere ermeneutico che articola e muove i dispositivi dell’interpretazione e dell’analisi critica di Onofri. Analisi che bene si definisce per minutissima proprio perché si attiene strettamente a rilevare e considerare un verso, vuoi come unità autonoma, vuoi nella successione che lo lega al precedente ed al successivo, vuoi nella sua intima fibra sillabica, ossia nella modulazione sonora verificata nella capacità di mettere o non mettere capo ad una sua compiuta resa figurale.

Ecco allora in Onofri quello stare accosto a Pascoli nella singola parola delibata in sillabe e in una attentissima verifica della continuità sillabica con la parola che segue in modo da delineare un costrutto di senso tanto in forma di ‘figura’, quanto in veste ‘sonora’. O non dobbiam meglio dire: al tutto musicale la composizione pascoliana nei raggiungimenti perfetti, quelli nei quali il musicale è la medesimezza del figurale, e viceversa? E quei raggiungimenti perfetti che risiedono in una o in un’altra myrica (si tratta di «una mirabile fioritura lirica di poche decine di pagine, quante ce ne vogliono per contenere» la cernita dei pochi testi ‘assoluti’) sono, quando sono, «purezza di estasi lirica e perciò di perfezione formale».

Di Pascoli dice Onofri che «si sente, nelle cose della maturità, un crescente orgasmo, come una paura che la poesia gli avesse a sfuggire da tutte le parti, e il bisogno di fermarla a furia sulla carta, anche non tutta matura, anche se slembata, sfrangiata, non compiutamente organica». Accade così, continua Onofri, che alcune «tra le sue liriche migliori hanno momenti di luminosità e di chiaroveggenza supremi, ma sperduti in chiazze di oscurità, in aloni di penombra, in ripetizioni e involuzioni verbali, in nodi d’anima non sciolti nell’espressione».

Onofri dunque seleziona, trasceglie dal ‘complesso’ dell’insieme dell’opera di Pascoli. Di Myricae indica la complessità ulteriore che la cernita severa (e rigorosamente motivata in punto di poesia) affida alla ricerca lirica che quel singolo verso dischiude. Nel caso di grandi poeti come Pascoli, sostiene Onofri, «i momenti in cui l’abbandono è intero e la visione è lucida danno origine a brevi poesie o a tratti di poesie che fanno razza a parte, e che si trovano al livello di qualunque capolavoro antico o moderno».