Chi voglia studiare o conoscere un poco meglio uno dei grandi scultori italiani del Novecento, Arturo Martini (1889-1947), potrà partire oggi da uno strumento utile come il libro che Elena Pontiggia ha dedicato all’artista trevigiano:  Arturo Martini La vita in figure (Johan & Levi, pp. 301, € 25,00) racconta infatti le vicende di Martini seguendo il filo della sua vicenda biografica.
Instancabile sperimentatore, in grado di reinventare motivi e spunti, era capace di guardare al passato della storia dell’arte con occhio quasi smaliziato e pronto a posarsi su ciò che poteva essergli utile o suggerirgli la via per risolvere i problemi che lo assillavano. Con la sua produzione, di fatto, Martini è riuscito a impostare una ridefinizione radicale dello statuto della scultura, che si sarebbe rivelato assai fruttuoso. Sarebbe addirittura arrivato a dichiarare «la morte della scultura» quando, nel 1945, a guerra appena conclusa, dava alle stampe presso la Tipografia Emiliana di Venezia un volumetto giustamente rimasto famoso: Scultura lingua morta.
La radicalità delle sue posizioni, se da un lato si spiega anche con le traversie dovute all’epurazione, dall’altro resta però inscindibilmente legata alla pratica artistica che Martini aveva perseguito sino a quel momento. Non c’è posto, secondo l’artista, per un’arte come la scultura nel mondo moderno. La scultura soffre della sua incapacità di liberarsi di una vocazione ‘monumentale’ e celebrativa. In questo modo, dall’estrema maturità, Martini ripensa retrospettivamente anche alla propria carriera artistica e giunge, ancora una volta in modo radicale, a sconfessare se stesso e il suo lavoro.
I passaggi cruciali che hanno segnato le tappe creative del percorso dell’artista nel volume sono contestualizzati e inseriti nella rete biografica: emergono così gli incontri e gli scambi con gli altri artisti, con i collezionisti e con gli amici. Così entrano nella narrazione Giovanni Comisso, Natale Mazzolà e Gino Scarpa, per citare solo qualcuno tra coloro che furono vicini a Martini per tutta la sua vita. Dagli anni della giovinezza, quando il giovane Martini scopre la sua vocazione di scultore, passando per la stagione – gli anni venti – in cui è inserito nel gruppo che gravita attorno alla rivista «Valori Plastici», sino ai Quaranta quando, ormai sicuro di un prestigio acquisito, ottiene la cattedra all’Accademia di Belle Arti di Venezia, Pontiggia delinea lo svolgersi della vicenda intellettuale dello scultore trevigiano. Sul doppio binario – quello del filo degli eventi e quello delle vicende creative – attraverso il quale si snoda il racconto, è possibile così seguire i tormenti di Martini, sempre inquieto di fronte alle necessità espressive e pronto a imprimere cambi di rotta inaspettati al suo linguaggio.
La cosiddetta «stagione del canto», uno dei periodi più felicemente prolifici della sua carriera all’inizio degli anni trenta, porta lo scultore verso una rinnovata consapevolezza di fronte ai modelli della tradizione: basti pensare a una grande opera in terracotta come Le stelle (1932), nella quale Martini rielabora spunti che gli derivano nientemeno che da Fidia. È il momento, quello, in cui giunge anche il riconoscimento ufficiale: la vittoria del primo premio alla Quadriennale di Roma nel 1931. Di lì a breve avrebbe accettato una nuova sfida: un monumentale bassorilievo in marmo per il Palazzo di Giustizia di Milano. Quello dei materiali che l’artista scelse di utilizzare per le sue sculture è un tema di grande interesse, che emerge anche nelle pagine del libro di Pontiggia. Nel corso della sua carriera Martini è stato capace di piegare le materie ai suoi scopi: dalla terracotta al bronzo, dal gesso al marmo, in ognuna delle sue sculture l’artista riuscì a infondere uno slancio ogni volta differente. Sfrutta la sordità del gesso, opaco e non riflettente, per dare vita a uno dei cicli più emozionanti, come quello di Blevio del 1935, in cui episodi tratti dal racconto mitico come Il ratto delle Sabine, la Morte dell’Amazzone o il Laocoonte sono reinterpretati alla luce di nuovi spunti, raggiungendo una libertà espressiva che segna un ulteriore traguardo nella sua vicenda creativa. Negli anni in cui insegnò a Venezia Martini spingeva i suoi allievi a pensare la scultura come un fatto di rapporti di luci e ombre, di vuoti e pieni; arrivò addirittura ad abolire la copia dal vivo.
La necessità di rendere esplicite le sue posizioni, oltre che al già ricordato volume del 1945, diede vita anche ai Colloqui, uno dei testi più belli sulla scultura e la sua pratica, pubblicato solamente nel 1967. C’erano alcune monografie, anche eccellenti, ma di fatto mancava una vera e propria biografia di Martini. Raccontare le vicende ‘esterne’ di un individuo, le scelte che poi si sono rivelate cruciali, le vittorie e le disfatte non è mai operazione semplice. Ancor meno se al centro del racconto biografico si trova un artista: il pericolo di spiegare certe scelte creative, e di conseguenza le opere, attraverso il filtro delle vicende evenemenziali è sempre in agguato. Tanto più se, come in questo caso, si ha a che fare con una personalità complessa come quella di Martini. Nel volume di Elena Pontiggia, che da tempo dedica la sua attenzione a Martini, questi rischi sono evitati in modo attento. Alla fine emerge un ‘ritratto’ dell’artista che riesce a renderne la problematicità e non si appiattisce in un racconto crono-biografico.