«Devo il mio nome a un’opera letteraria, L’isola di Arturo, ho trascorso la giovinezza nell’ombra di questa grande scrittrice amica di mio padre. Fu lei a portarmi da Eduardo. Era in scena al Quirino con Sik Sik. Salimmo in camerino, lui era lì, vecchissimo, indimenticabile». Al termine del triennio di Renato Carpentieri, Arturo Cirillo è stato scelto da Roberto Andò per dirigere la Scuola per attori del Teatro Nazionale di Napoli (il bando di iscrizione scade il 10 maggio). L’attore e regista partenopeo, punta del teatro contemporaneo nazionale porta con sé una lunga esperienza con i maestri e una formazione non canonica influenzata dall’aria che ha respirato fin da piccolo in una famiglia «legata a un mondo della sinistra extra parlamentare, immersa in un humus culturale che si creava dallo stare insieme». Cirillo assieme alla sua compagnia ha aderito all’iniziativa del «manifesto» per il 25 aprile, lo intervistiamo mentre è in scena al Teatro Duse di Bologna con il Cyrano.

Come direttore, puoi contare su una lunga esperienza di insegnamento teatrale.

Il mio rapporto con l’insegnamento è nato in modo molto casuale, non immaginavo che nella mia vita avrei avuto anche una carriera da insegnante di teatro. Circa quindici anni fa, grazie a Michele Mele, conobbi Claudio De Maglio, direttore dell’Accademia Nico Pepe di Udine. M’invitò. Ero reticente, non ho mai avuto un metodo. Sono stato dieci anni in compagnia con Cecchi che ha sempre detto «io non sono maestro di niente e di nessuno». Mi disse: prova per una settimana. Alla fine, i ragazzi erano entusiasti. In seguito sono stato chiamato alla Paolo Grassi e all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica a Roma che avevo frequentato da allievo e dove tuttora insegno. Il primo anno curai un saggio di diploma su Napoli Milionaria. Scelta inusuale: curioso che questa famigerata accademia di teatro diplomasse gli attori con un testo in lingua napoletana. Negli anni abbiamo lavorato molto sulla drammaturgia contemporanea: Fassbinder, Ruccello. L’anno scorso, approfittando del fatto che ci fossero due aspiranti registi campani abbiamo messo in scena le Cinque Rose di Jennifer e L’ereditiera che porteremo in scena anche allo Stabile di Napoli.

Come sarà la nuova Scuola?

Ho cercato di immaginarmi questi tre anni ripensando al mio percorso. Mi sono nutrito di grandi testi letterari. La lingua napoletana l’ho recuperata col teatro, prima l’avevo sempre rifiutata, Franco Quadri mi definì un «napoletano astratto». Voglio far lavorare gli allievi non solo sulla drammaturgia napoletana, Petito, Viviani, Scarpetta, i De Filippo, oltre a Eduardo anche Peppino e Titina. Soprattutto mi riprometto di lavorare con loro in modo più specifico sulla scrittura contemporanea, penso a Ruccello, Moscato, Francesco Silvestri, Santanelli, Autiero. Parliamo di autori che per noi napoletani sono super noti ma, anche alla luce della mia recente tournée per la ripresa di Ferdinando, devo aimè testimoniare che Annibale Ruccello oggi lo conoscono anche meno di dieci anni fa. È doveroso, arricchente far conoscere questi autori alle nuovissime generazioni, soprattutto ai non campani. Il mio maestro Carlo Cecchi da giovanissimo lasciò Firenze per bussare alle porte del camerino di Eduardo. La drammaturgia napoletana non deve essere fatta solo da attori e registi locali, anzi. Ho lasciato Napoli presto, il mio sguardo è prossimo e distante: mi sono sempre posto nei confronti della tradizione con la volontà di conoscerla, frequentarla, abitarla e anche tradirla, attraverso un’opera di immaginazione.

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Arturo Cirillo e il vaudeville romantico di Jane AustenNapoli ha partorito grandi scritture e autori. Come vedi il panorama contemporaneo?

Mi sembra che Napoli, anche rispetto all’attualità più stringente, abbia molte persone che scrivono. Vorrei usare la scuola per creare rapporti tra futuri attori e drammaturghi. Come segno forte, ho chiesto di aggiungere al corso di recitazione anche quello di regia. Se penso alla mia formazione in Accademia, uno dei momenti più importanti è stato il saggio di diploma del mio compagno di corso Davide Iodice con Uscita di Emergenza di Manlio Santanelli, ero uno dei due protagonisti. Mi piacerebbe dare agli allievi la possibilità di mettere in scena lavori autonomi con la mia supervisione. Credo molto nella possibilità della nascita di nuovi gruppi giovani.

Il tuo percorso è segnato molto dalla danza, spesso «esclusa» dalla formazione teatrale.

A 11 anni mi iscrissi alla scuola di danza Harmony a Monte Di Dio, diretta dal maestro Angelini, prima di entrare nella compagnia di Cecchi, ho trascorso anni fondamentali di lavoro con Livia Patrizi, figlia di Fabrizia Ramondino, amica di famiglia, che insegna danza a Berlino. Credo che il lavoro sul corpo sia centrale per cercare una forma di teatro che coinvolga altri linguaggi. Cecchi mi diceva spesso «sei troppo coreografico, devi avere più peso, devi avere più peso». Ho cercato di acquisire quella pesantezza; quando ho iniziato a fare regia la danza è tornata in maniera prepotente, di questo sono molto contento. Livia sarà una delle maestre della scuola che conta su una grande presenza femminile: Monica Demuru, Arianna D’Angiò, Sabrina Scuccimarra, Marta Bevilacqua e condividerò la direzione con Annalisa D’Amato.

Chi altro ci sarà?

Attori formatori capaci di trasmettere passione. Valerio Binasco, Scimone e Sframeli, con loro ho fatto Shakespeare al Teatro Garibaldi di Palermo, una delle esperienze teatrali più importanti della mia vita. Ho invitato Sandro Lombardi per approfondire la recitazione in versi, ancora Davide Iodice, Roberto Capasso. Credo nel lavoro sull’attore anche da parte dei registi, per me l’attore è il centro del teatro. Considero la formazione come legata anche alla tecnica. Pina Bausch al termine delle audizioni invitava tutti a «tornare un po’ a scuola». Occorre nutrire l’immaginazione e la creatività ma anche dare strumenti, tecniche fondamentali, da millenni sono sempre le stesse, che aiutino l’espressione a raggiungere la platea, lo spettatore.

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