È la pace o sono le poltrone? Come si spiega il plateale sgarbo dei ministri leghisti, che ieri hanno disertato in massa le comunicazione della premier alla Camera? Un po’, probabilmente, hanno concorso entrambe le fonti di malcontento e forse la seconda più della prima. Però, dopo l’affondo clamoroso del capogruppo al Senato Massimiliano Romeo del giorno prima, è difficile credere che Matteo Salvini non volesse segnalare anche la distanza dalle posizioni iper-atlantiste dell’alleata. Lui, il vicepremier la cui assenza spiccava più di ogni altra, aveva l’alibi già pronto: una riunione al ministero sul traffico. Debolina assai.

I FRATELLI, DI FRONTE a quei banchi vuoti, s’indispettiscono, la premier anche di più. I richiami di ogni tipo trascinano in aula il ministro Giuseppe Valditara, quando già il caso è esploso e Carlo Calenda afferma addirittura che «l’esecutivo è già in crisi, anche se per le ragioni sbagliate».

Il ministro dell’Istruzione è in quota Carroccio ma non è un leghista: il suo arrivo non colma il vuoto. Fortuna che dopo un po’ lo sostituisce Roberto Calderoli e tutti possono giurare che l’incidente è chiuso. Però non è vero. Non è affatto sopita la tensione sulle nomine, montata nelle ultime settimane sia per il metodo che per il merito. Non lo è quella, meno transitoria, sulla guerra. La divisione netta tra una premier che vuole fare dell’Italia una specie di Polonia dell’Europa occidentale e alleati che preferirebbero l’estremo opposto prima o poi finirà per emergere.

SULLE NOMINE, che tra piccole e grandi ammontano a un piccolo esercito, i leghisti sono inviperiti per il metodo, per la verità non inedito, per cui la presidente del consiglio ascolta molti e decide con pochi, anzi pochissimi: il fedelissimo sottosegretario Giovanbattista Fazzolari e l’anche più potente Alfredo Mantovani.

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Silenzioso, efficiente, se del caso diplomatico, con i contatti giusti oltre Tevere e sul Colle: in pochi mesi è diventato potentissimo e Salvini non gli ha ancora perdonato il tentativo, in buona parte fallito, di scippargli la sorveglianza marittima. Nel merito poi Giorgia Meloni, in pieno contrasto con la Lega, punta sulla continuità con Mario Draghi, soprattutto nelle nomine più pesanti come Eni, Poste ed Enel.

L’UCRAINA INSOMMA è un nodo reale, il più intricato che ci sia oggi, ma è anche uno strumento da adoperare a fini molto meno internazionali. Matteo Salvini la usa per tenere la premier sulla corda. Il leader dei 5 Stelle Giuseppe Conte va all’attacco: «Ci state trascinando di gran carriera in guerra ignorando che in un conflitto nucleare non ci sono vincitori né vinti. Ci mette la faccia ma è una faccia di bronzo».

È la linea dei pentastellati da mesi ma serve anche per mettere in difficoltà la nuova segretaria del Pd Elly Schlein per cui proprio la posizione sulla guerra è la porta più stretta. Infatti sceglie di non parlare, e non è una gran bella figura. Fa intervenire Marianna Madia che candidamente annuncia di «sostenere la posizione con la quale il governo rappresenterà l’Italia». Mica come quegli infidi alleati che la stessa Madia consiglia alla presidente di «tenere d’occhio con attenzione». Non spiega perché, essendo del tutto d’accordo, il Pd non vota la parte della mozione di maggioranza sulla guerra, come fa invece il Terzo Polo. In effetti è inspiegabile.

È un autogol e un passo falso da parte della nuova segretaria dem, che di fatto ha lasciato ieri la bandiera di “speaker” dell’opposizione a un Conte in ottima forma. Ma quanto ad autolesionismo non scherza nemmeno il verde Angelo Bonelli, che agita i sassi secchi dell’Adige per denunciare la siccità in Trentino. Sembra un po’ «non piove, governo ladro» e infatti la presidente ha gioco facile nel liquidare la faccenda ironizzando: «Vuol dire che in 5 mesi io ho prosciugato il fiume come Mosè?». Definitivo.

NEL CHIASSO della rappresentazione teatrale, dove ognuno mette in campo la propria bandiera e poco importa se con il Consiglio europeo di oggi non c’azzecca, si perdono i veri punti dolenti in Europa. Uno su tutti: la ratifica del Mes. Quella firma il governo non vuole apporla. Giorgia Meloni lo dice forte e chiaro: «Non è un totem ma uno strumento da adeguare». Di tutti i discorsi e i botta e risposta degli ultimi due giorni, a Bruxelles daranno importanza a questo passaggio più che a ogni altro. E non la prenderanno bene.