Armando Testa, l’essenziale
«Less is More», questo famoso adagio inventato da Mies van de Rohe è diventato anche il primo comandamento di Armando Testa (1917-1922), uno dei più grandi creativi italiani, pubblicitario e artista, inventore di indimenticabili manifesti e caroselli, che viene celebrato con una grande personale a Ca’ Pesaro. Inauguratasi il 4 aprile, l’esposizione che porta semplicemente il suo nome, sarà visibile fino al 15 settembre in questo bel museo veneziano affacciato sul Canal Grande, cui la signora Testa ha voluto donare alcune opere del marito. I curatori (ad affiancare la stessa Gemma De Angelis Testa, vi sono Tim Marlow ed Elisabetta Barisoni) – hanno scelto di raccontare il lungo percorso dell’artista torinese, che si svolge dal 1937 al 1991, in modo abbastanza cronologico-lineare, partendo cioè dai primissimi manifesti, passando per la fortunata stagione televisiva, proseguendo attraverso le variazioni su Mondrian degli anni ’60 e i cicli di pittura astratta degli anni ’80 ripensamento dell’informale, giungendo infine sulla soglia dei ’90 a una delle sue «ossessioni», la serie Segno dedicata al massimo simbolo religioso occidentale, la croce.
L’essenzialità del segno si evince fin dalla prima prova cartellonistica, che Testa realizza nel 1937 partecipando a un concorso della rivista Graphicus e arrivando al primo posto: il manifesto per la milanese Industria di Colori e Inchiostri, è composto da pochi segni di colore giallo, bianco e rosso su fondo nero. Una scelta radicale in un periodo in cui l’astrazione è apprezzata da pochi. Ma la figurazione nell’arte di Testa diventa poi una componente decisiva nei cartelloni pubblicitari successivi che lo hanno condotto al successo, come quelli per lanciare il Punt e Mes della società Carpano o gli pneumatici Pirelli. Per il vermuth, nelle sue varianti fine ’40 inizio ’50, Testa sceglie di far toccare le due pance dei personaggi (un re che brinda insieme a Cavour), evidenziando quel «mezzo punto» (mezza misura di amaro in aggiunta) che poi sarebbe diventato, nel 1959, il logo del liquore piemontese, ovvero una sfera seguita subito sotto da mezza sfera. Nel 2015 questa icona di colore rosso è diventata Sintesi ’59, una grande scultura in smalto nero alta cinque metri oggi posizionata davanti alla stazione di Porta Susa a Torino, città natia di Testa.
Passando in rassegna i numerosissimi poster che, nel corso dei decenni, ha inventato per sintetizzare un concetto attraverso un segno, ve ne sono alcuni più pittorici e altri più grafici o fotografici, quasi sempre su un fondo bianco, oppure dai colori accesi e uniformi molto pop (il verde fluorescente sempre del Punt e Mes, il giallo di Facis). In alcuni casi Testa – la cui regola è sempre stata quella di essere chiaro e diretto verso il fruitore – sceglie soluzioni più sperimentali: il primo manifesto per le olimpiadi di Roma del 1960, ad esempio, ovvero il tedoforo in stile sironiano che si fonde con il Colosseo, viene bocciato perché troppo «azzardato». Ma l’artista comunque ottiene la commissione con un altro manifesto più classico ma non meno raffinato.
Come scrive Elisabetta Barisoni nel catalogo pubblicato per Silvana Editoriale: «Anche nelle prove di impegno sociale e culturale, sicuramente meno note dell’attività come pubblicitario, Testa dimostra la sua inesausta e geniale ricerca nei territori della storia dell’arte: dalle avanguardie storiche e dal Futurismo a Mario Sironi, da Alberto Martini all’Espressionismo tedesco, dal fotomontaggio Dada all’astrazione, dal Surrealismo all’Informale internazionale, qualsiasi sia il tema su cui si concentra cerca sempre di porsi con sincerità e coerenza dalla parte di chi guarda”.
In molte altre opere esposte, che non sono frutto di una committenza, ma sono state fatte per il piacere di assemblare, creare associazioni, esercitare il proprio estro grafico-pittorico, perfino sconfinare nel kitsch, possiamo ammirare il Testa più libero, dove comunque l’artista dialoga con il pubblicitario, espande in direzioni diverse l’approccio alla merce (il cibo). Tra le cose migliori in questo senso vi sono le cartoline augurali, le serigrafie a tiratura limitata, le copertine e anche le sculture della sezione Metamorfosi, che vanno dagli anni ’60 agli anni ’90. Si tratta di salumi, verdure, formaggi spesso antropomorfizzati che danno vita a nuove creature o, semplicemente, ad assemblage con l’aggiunta di significativi titoli giocosi; insomma veri e propri calembour visivi fotografici. Ma vi sono poi i lavori di grafica come Toro, Cane strabico, Gufo, Merlo con verme, Cane da tabacco o Cavallo che ride cinese, da cui emerge la profonda cultura tipografica di Testa.
Di grande effetto è – tra le altre cose – l’installazione su tre pareti di 80 disegni realizzati tra il 1968 e il 1990 che costituiscono quasi un’unica opera e sono caratterizzati in gran parte da un elemento ricorrente in tutta l’attività testiana, il dito, che – a detta dell’autore – «possiede una bellezza formale decisamente superiore all’orecchio e in diretta competizione con l’occhio. Le sue possibilità sembrano senza limiti: ce la si lega al dito; si mette il dito nella piaga; si ha qualcosa sulla punta delle dita. Col dito si indica, si accusa, si chiama, si nega, si conta, si scrive, si legge, si fanno gesti osceni o proibiti dal galateo». Il dito torna protagonista anche in grandi pannelli fotografici del 1975, Dita (performance), oppure in A spanne del 1982, senza dimenticare che dita e mani la fanno da padrona in diversi manifesti, da quello iconico e memorabile del digestivo Antonetto del 1960 a quello per il divorzio del 1970 fino a quello concepito per Amnesty International nel 1987.
Ma il minimalismo di Testa si manifesta anche nelle creature che hanno caratterizzato l’era di Carosello, entrando prepotentemente nell’immaginario collettivo di adulti e bambini: Carmencita & Caballero (per Lavazza), l’ippopotamo Pippo (Per i pannolini Lines) e Papalla (per gli elettrodomestici Philco). Coni e sfere sono forme basilari che, sviluppate, diventano personaggi animati. Testa è stato uno dei protagonisti dell’advertisement televisivo, con decine e decine di spot per reclamizzare prodotti come la birra Peroni o l’olio Sasso, ma è pur vero che sono soprattutto i suoi brevi filmati in stop motion a restare intatti nella nostra memoria. Nel 1965, l’anno che segue all’exploit di Sergio Leone con Un pugno di dollari, si inventa l’ambientazione western dove il Caballero – all’interno di una scenografia essenziale ma efficacissima – deve continuamente salvare l’amata Carmencita dai villain di turno.
Per Philco, invece, ecco spostarsi sul genere fantascientifico e ideare un pianeta tecnologico abitato da esseri a forma di palla. Una sfera sormontata da un naso e soprattutto da due occhi-monitor che ricordano il televisore da pubblicizzare, è l’abitante-tipo, cioè Papalla. Con questa idea meta-rappresentativa, Testa inserisce l’oggetto prima che compaia nel packshot finale (così come prescritto dalle regole di Carosello). Tra parentesi è in corso di realizzazione una serie televisiva di 26 episodi in animazione 3D, Pianeta Papalla, che riporterà in auge il personaggio e andrà in onda nel 2025 su Raikids.
Per Lines, invece, non fu usata la tecnica del passo uno, ma live action, con due uomini che indossavano il grande ippopotamo blu. Oltre a una selezione di réclame, a Ca’ Pesaro sono esposti anche i pupazzi originali, replicati poi – con materiali diversi – grazie al merchandising, oggetti ormai al centro di un collezionismo per appassionati.
Le circa 250 opere esposte a Ca’ Pesaro, nella loro allegra eterogeneità, sono tutte accomunate dal dono dell’invenzione e della sintesi, anche se Testa ha sempre detto di non aver mai voluto ricercare un segno immediatamente riconoscibile. Eppure, in questo non-stile, il suo tocco è sempre percepibile e inconfondibile, e la sottrazione aggiunge valore all’immagine, poiché – come amava dire sempre – «Nel meno c’è il più».
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