Apro Shakespeare e divento Amleto, Lear, Riccardo III…
William Hazlitt, «I Personaggi del Teatro di Shakespeare», da Sellerio Saggista e scrittore autodidatta, inglese ma non-anglicano, rimase fedele alla Rivoluzione francese. Leggeva il teatro del Bardo come uno specchio
William Hazlitt, «I Personaggi del Teatro di Shakespeare», da Sellerio Saggista e scrittore autodidatta, inglese ma non-anglicano, rimase fedele alla Rivoluzione francese. Leggeva il teatro del Bardo come uno specchio
Tra le proposte editoriali per i quattrocento anni dalla scomparsa di Shakespeare spicca la prima traduzione italiana del libro più famoso di William Hazlitt, Characters of Shakespear’s Plays, pubblicato quasi duecento anni fa, nel 1817, che non ha perso nel frattempo le sue doti principali, ossia vitalità, sincerità, umanità, e anzi resta un documento sorprendente per più ragioni: I personaggi del teatro di Shakespeare (Sellerio «La diagonale», con uno scritto di E. A. Poe, traduzione di Alfonso Geraci e Francesco Romeo, postfazione di Geraci, Sellerio, pp. 320, euro 18,00). Il libro è, in estrema sintesi, una smisurata dichiarazione d’amore per il teatro shakespeariano, e in particolare per le tragedie. È articolato in trentadue capitoli, ognuno dedicato a un’opera, seguiti da due sezioni che trattano le attribuzioni dubbie e, insieme, i poemi e i sonetti. La progressione è ispirata a un criterio discendente: prima le tragedie e i drammi storici, cioè le opere complessivamente classificabili come capolavori, dominate da grandi passioni, poi le commedie, che a Hazlitt «piacciono la metà» delle prime. È significativo perciò che tra i primi capitoli si trovi il Sogno di una notte di mezza estate, per le sue qualità poetiche (il critico trovava in questa commedia «più dolcezza e bellezza descrittiva che in tutto il repertorio dei poeti francesi»), mentre fra gli ultimi, in mezzo alle commedie, Misura per misura, tragedia dove «la passione in generale fa difetto; i sentimenti sono in stato di riposo, le nostre simpatie sono deluse e frustrate in ogni direzione». Infine, ovvero al gradino più basso, una veloce analisi dei drammi da non attribuire affatto al Bardo, come il Tito Andronico, «un accumulo di orrori di natura oscenamente fisica, in cui la forza esercitata dal poeta non ha proporzione alcuna con la ripugnanza esercitata dal soggetto» e, tolti alcuni sonetti, la liquidazione dell’opera poetica, nella quale mancherebbe l’impronta del genio, perché Shakespeare «era capace d’uscir fuori di sé, e materializzare l’anima di Cleopatra; ma nel ruolo di se stesso pareva sempre in attesa dell’imbeccata del suggeritore».
La descrizione della struttura dei Personaggi e qualche citazione sono sufficienti a suscitare il sospetto che questo testo critico documenti più il profilo del suo autore ottocentesco che i caratteri del teatro del Bardo. Il sospetto è fondato. La tormentata carriera letteraria di William Hazlitt ebbe in quest’opera il culmine della fama, non senza subire l’attacco velenoso dei suoi detrattori, ma è impossibile costringerla all’interno della critica shakespeariana, o più latamente teatrale. Si deve fare piuttosto l’operazione opposta: collocare cioè I personaggi all’interno dell’opera omnia hazlittiana, che si potrebbe definire un articolato Domesday Book dell’umanità, un giudizio universale decretato da un giovane autodidatta inglese tenuto fuori dalle aule universitarie di fine Settecento perché non anglicano, ma unitariano, e appassionato sostenitore della Rivoluzione Francese.
Carlo Dionisotti ci ha insegnato a sapere non solo come campino gli scrittori, ma che età abbiano all’epoca dei fatti che segnano la Storia. Hazlitt campò della sua scrittura saggistica, pubblicando essays polemici su riviste e in volume. Nel 1789 aveva undici anni e quattordici nel 1792, l’anno della prima straordinaria vittoria dell’esercito popolare francese a Valmy contro Austria e Prussia. Molti inglesi della sua generazione furono rivoluzionari da ragazzi e, come avrebbe poi raccomandato Winston Churchill, conservatori da adulti. Hazlitt si vantava di aver messo a punto la sua visione del mondo a sedici anni e di non averla sostanzialmente più cambiata. Sarebbe rimasto un uomo di sinistra sempre, vedendo molti dei suoi amici e maestri sfilarsi piano piano e «mettere la testa a posto». Negli ultimi anni della sua non lunga vita (morì nel 1830 a cinquantadue anni) dedicò a Napoleone Bonaparte un’imbarazzante biografia in quattro volumi, mentre i suoi compatrioti cercavano di dimenticarsi del fastidiosissimo generale còrso. Tuttavia la sua fedeltà ai propri ideali giovanili non fanno di lui un autore monolitico. Egli al contrario è uno scrittore assai contraddittorio. Polemizzando e rispondendo attraverso i suoi articoli saggistici sull’arte e la società agli attacchi di vecchi e nuovi detrattori (William Gifford, Robert Southey) gli capitò numerose volte di polemizzare con proprie posizioni precedenti. Come scrisse nel 1823 in una raccolta di massime à la Rochefoucald: Characteristics (che ancora attende una sua traduzione italiana), «L’uomo è un animale intellettuale ed è perciò in perenne contraddizione con se stesso (…) Solo un essere meramente fisico, o un puro spirito, possono essere contenti di sé».
Entrare nel suo mondo non è facile, se non si accetta la premessa che la vita è paradossale. Per avvicinarsi a questi Personaggi risulterebbe quindi molto utile cominciare dalla lettura di un suo libro filosofico pubblicato a ventisette anni che, va detto, non ebbe all’epoca nessuna eco, e continua a non averne: An Essay on the Principles of Human Action del 1805, un’analisi dei principi di fondo che stimolano l’uomo ad agire come agisce. La tesi è che la mente umana persegue il bene disinteressatamente, non per pragmatico egoismo. Il motore primo è l’immaginazione, che permette di dirigere l’azione considerando soggetti che nella realtà attuale non esistono: il nostro io futuro e gli altri con cui avremo a che fare. «L’immaginazione – scrive –, il solo mezzo con cui riesco a prevedere oggetti futuri, o a provare interesse per essi, mi porta necessariamente fuori di me verso i sentimenti degli altri con il medesimo identico processo per cui vengo proiettato in avanti verso il mio essere futuro e a provare interesse per esso. Non potrei amarmi, se non fossi capace di amare gli altri (…) In questo senso, l’amor proprio è alla radice un sentimento perfettamente disinteressato o, se posso dire così, impersonale. Il motivo per cui un bambino comincia a volere e a perseguire il suo bene non è perché è il suo, ma perché è bene». L’idolatria di Hazlitt per il Bardo va letta sulla base di queste affermazioni contenute nei Principles. Shakespeare esce fuori di sé costitutivamente calandosi nei suoi vari personaggi, dando loro vita, e dunque passioni, con una naturalezza senza pari. La sua immaginazione crea Amleto o re Lear al pari della natura, e il lettore (o almeno il lettore Hazlitt) quando incontra questi personaggi sente di essere Amleto, di essere Lear, o di comprendere un determinato carattere umano attraverso Falstaff, o Riccardo III. Etichettare Hazlitt come «critico del personaggio», da affiancare magari al crociano Luigi Russo autore a metà Novecento dei Personaggi dei Promessi Sposi, è un errore di prospettiva. Hazlitt è un umanista a tutto campo, il cui interesse è quindi politico, sociale e anche artistico. Per conoscere l’umanità è indispensabile l’uscita da sé e questo movimento a Shakespeare riusciva con una facilità miracolosa, che finisce per contagiare il lettore e, nei casi migliori (quando ad esempio recita il grande Edmund Kean), anche lo spettatore. «Il suo genio fu drammatico, così come quello di Chaucer fu narrativo».
Shakespeare diventa Amleto che diventa Hazlitt che comprende Shakespeare e vorrebbe abbracciare in questa comprensione l’umanità intera: è il circolo della fraternité, l’ideale rivoluzionario che, terzo della triade, è stato il più largamente disatteso. A questa tensione verso l’altro va attribuita l’altissimo numero di citazioni, anche lunghissime, contenute nei suoi testi. Cede volentieri tre o quattro pagine di fila ad Alexander Pope e ad August Wilhelm Schlegel perché hanno scritto pagine condivisibili o stimolanti sul Bardo e ogni sua descrizione di un’opera shakespeariana prima o poi culmina nel passo antologico, che è quasi il vertice stesso dell’attività critica. La citazione è un nobilissimo uscire da sé. Che l’autore dei Principles e poi dei Characters abbia trascorso la sua vita di scrittore a polemizzare con avversari e che, dopo il fallimento del proprio matrimonio, abbia sperimentato in maniera bruciante l’amore non corrisposto, documentandolo nello scandaloso Liber Amoris; che abbia insomma continuamente sperimentato lo scacco dell’uscire fuori da sé per incontrare gli altri, è il mistero hazlittiano per eccellenza, che di sicuro coinvolge molti esseri umani, magari soprattutto coloro che amano rinchiudersi nella propria cameretta reale o virtuale a dialogare con i testi scritti. In Shakespeare dunque il critico sperimenta se stesso, la sua lettura è un autoriconoscimento. «Jacques è l’unico personaggio puramente contemplativo di Shakespeare. Egli medita e non fa nulla. Tutta la sua occupazione consiste nel recar diletto alla propria mente, ed è totalmente incurante del proprio corpo e dei propri averi (…). È irritato dalla passione di Orlando per Rosalinda, come fosse denigratoria della propria passione per le verità astratte», scrive Hazlitt a proposito di Come vi piace. Il grande Coleridge, che conobbe il futuro autore dei Personaggi quando non aveva pubblicato ancora nulla, così ne scrive a Thomas Wedgwood in una lettera quasi preveggente del 1803: «William Hazlitt è un tipo riflessivo, attento, originale… I suoi modi 99 volte su 100 sono particolarmente scostanti: aggrotta la fronte, sta lì a contemplarsi la punta dei piedi, è strano…(…) Con tutto ciò, c’è molto di buono in lui: è disinteressato, ama entusiasticamente i grandi uomini del passato. Dice cose che sono sue in un modo che è suo». Non è esagerato vedere nello Hazlitt che scrive del personaggio Jacques un uomo davanti allo specchio. E l’esempio non è isolato. Quando tratta di Re Lear, la sua tragedia preferita, il rispecchiamento è massimo: «Ci troviamo nella sua mente, siamo sostenuti da una forma di grandezza che dà scacco alla malignità delle figlie e delle tempeste. Nell’aberrazione della sua mente scopriamo un’enorme sregolata potenza del ragionamento». Giusto perciò che il saggio si concluda con un concentrato di poetica in quattro punti, introdotto dalla frase «Quattro cose abbiamo capito leggendo il Lear». La prima è: «Che la poesia è uno studio interessante in quanto riguarda tutto ciò che è del massimo interesse per la vita umana. Chiunque pertanto disprezza la poesia, disprezza se stesso e l’umanità». Il resto è per chi andrà a cercare il volume, pregevole in sé, ma un po’ maltrattato da una correzione di bozze frettolosa, che ha lasciato vari refusi soprattutto nelle citazioni e in qualche traduzione da rivedere, come «the late Mr. Sheridan» che è rimasto «il tardo signor Sheridan», dove late nella revisione sarebbe sicuramente diventato «il recentemente scomparso», o «il compianto» Richard B. Sheridan: che non era tardo, ma morì nel 1816, mentre Hazlitt scriveva i Personaggi.
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