9 ottobre 1963, il disastro della diga del Vajont (LaPresse)
9 ottobre 1963, il disastro della diga del Vajont – LaPresse
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Antonio G. Bortoluzzi e l’eredità senza pace del Vajont

L'intervista Lo scrittore di Alpago racconta come è nato il suo memoir collettivo "Il saldatore del Vajont", edito da Marsilio. "In fabbrica, a Longarone, ho avuto in dono episodi e ricordi con gli occhi lucidi, il senso d’ingiustizia e la dignità di queste persone"
Pubblicato circa un anno faEdizione del 7 ottobre 2023

La sera del 9 ottobre del 1963 una frana di quasi trecento milioni di metri cubi di roccia precipitò dal Monte Toc nel bacino idroelettrico del Vajont: l’impatto sollevò un’onda di cinquanta milioni di metri cubi che in parte scavalcò la diga abbattendosi sull’intera vallata sottostante. La cittadina di Longarone fu quasi completamente distrutta come molti paesini e frazioni della zona; si contarono circa duemila vittime, mentre a tutto il territorio circostante fu inferta un ferita indelebile.

A «crollare» non era stata la diga, costruita dalla Società adriatica di elettricità (Sade) e da poco passata sotto il controllo dell’Enel, ma la montagna circostante, la cui natura friabile era stata occultata da perizie compiacenti. In nome del bene superiore dello sviluppo del Paese, e della produzione di energia elettrica, si erano messe consapevolmente a rischio le vite di migliaia di persone, fino alla tragedia. Dopo le condanne, ma solo per «inondazione aggravata» di due degli ingegneri responsabili dei lavori, si dovranno aspettare trentasette anni, il luglio del 2000, perché i parenti delle vittime siano risarciti dallo Stato, l’Enel e la Montedison (nata da una fusione che aveva assorbito la Sade). Quello del Vajont non era stato un «disastro naturale».

Antonio G. Bortoluzzi, foto di Sergio Mognol

A sessant’anni dai fatti, Antonio G. Bortoluzzi torna sulla tragedia attraverso «un viaggio» nei luoghi dove è avvenuta. Il protagonista de Il saldatore del Vajont (Marsilio, pp. 130, euro 15) – una sorta di alter ego dello scrittore bellunese della conca d’Alpago di professione operaio manutentore – visita l’impianto idroelettrico, le gallerie, la diga, la frana del Monte Toc intrecciando la memoria di quel drammatico evento con la propria storia personale, l’eredità di un dramma che viene dal passato con le forme attraverso cui il lavoro, la natura e il valore della vita umana si intrecciano non senza contraddizioni ancora oggi. Sul fondo, la riflessione che l’autore – di cui si possono ricordare il romanzo Come si fanno le cose (Marsilio, 2019) e l’antologia Montagna madre, trilogia del Novecento (Biblioteca dell’immagine, 2022) -, conduce da tempo sui corpi e i luoghi, il lavoro e le Dolomiti dove è nato e vive ancora oggi.

Al termine de «Il saldatore del Vajont» il protagonista si chiede «come si fa a resistere a tutto questo?», parlando del dolore dei sopravvissuti e delle tragiche conseguenze del disastro della diga. Per lei, cosa ha significato crescere accanto a un tale dramma?

Sono nato e vivo in una valle vicina, l’Alpago, ma lavoro da tanti anni nella zona industriale di Longarone, sulla sponda del Piave, ai piedi della cittadina ricostruita dopo il disastro. E dove ora ci sono le fabbriche c’erano solo fango, detriti, corpi, resti di corpi. Il solo comune di Longarone ha patito 1450 vittime, sulle 1910 accertate: questo significa la cancellazione totale di vite, famiglie, case, piazze, strade, comunità, memorie. Come il protagonista del romanzo, ho sempre avuto la sensazione di essere di fronte a qualcosa di troppo grande: la diga, la frana, la strage. Dentro tutto questo ci sono però, oggi come ieri, persone che ricordano, che desiderano testimoniare e non si arrendono. E io, in fabbrica, ho avuto in dono tanti racconti, episodi, frammenti detti con poche parole, gli occhi lucidi, e qualche volta interrotti dalla commozione. Pensandoci adesso, per me, trascorrere tanti anni a Longarone ha significato incontrare la grande dignità di queste persone che conoscono il dolore irreparabile, la rabbia, il senso d’ingiustizia, ma mai il vittimismo.

La storia che lei racconta ci parla di un mondo che non c’è più: non solo i paesi e i campi sommersi dall’acqua, ma anche un Nordest fatto di emigranti verso l’Europa e di persone che dovevano scendere ogni giorno dalle montagne per cercare un lavoro. Cosa rappresentò per quelle zone la costruzione della diga?

La povertà in montagna ha una storia lunga e aveva poche occasioni di riscatto: il duro lavoro agricolo sulle terre ripide, l’artigianato, altre piccole attività o la grande emigrazione, anche stagionale, di gente che aveva un mestiere: scalpellini, muratori, gelatai, teleferisti, boscaioli, cavatori di pietra. La costruzione degli impianti idroelettrici, nel 900, ha rappresentato anche un po’ di lavoro ben pagato, una speranza, un’idea di progresso. Il disastro del Vajont ha significato anche uccidere la fiducia che quelle persone riponevano nell’industria, nella politica, perfino nella giustizia.

All’epoca, Tina Merlin raccolse sull’«Unità» le preoccupazioni dei contadini che vedevano aprirsi delle fenditure nella terra, segnali di pericolo che però furono ignorati: era questa l’altra faccia del boom economico, oltre la retorica del miracolo italiano?

Tina Merlin è ancora molto amata, ricordata, studiata: si era adoperata per la povera gente contro il potere pubblico e privato. Lo ha fatto prima, durante e dopo il Vajont. Il suo libro «Sulla pelle viva» è un documento importante, da leggere sempre perché mostra gli intrecci, la prepotenza, gli intrighi negli anni del miracolo italiano. Ma lei era una donna della Resistenza, sapeva bene che cosa fosse lottare, resistere, e ciò comprendeva anche pagare in prima persona, se necessario.

Il suo libro non sembra soltanto un romanzo operaio, ma una storia nella quale il lavoro, la fatica, il sapere di chi costruisce una casa o una «grande opera» come la diga, acquistano una propria voce narrativa, imprimono un ritmo e un lessico alle pagine. Quanto è importante per lei tale aspetto di quest’opera?

Provo a dire come nasce. Ho cominciato a lavorare a 16 anni nei cantieri edili e tutto ciò che vedo ancora oggi intorno a me è fatto da qualcuno, è il lavoro di qualcuno. Questo lo dice anche la Costituzione: l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Già solo questo dovrebbe rendere nobile il lavoro, e ogni genitore dovrebbero tornare a casa fiero di fronte ai propri figli e invece si avverte una specie di stanca rassegnazione a causa, non solo della fatica, ma di precarietà, delocalizzazioni, aumento dell’età pensionabile, erosione dei diritti. Così racconto i luoghi e le persone che «fanno le cose», nel concreto, ogni giorno.

Nel libro, lei parla di una «narrazione omerica» a proposito del modo in cui la memoria collettiva di queste terre – e anche quella della sua famiglia – ha preso voce nella storia, raccontando ma anche interrogando indirettamente il lettore a più riprese: come è nato questo libro intenso, che sembra somigliare ad un memoir declinato al plurale?

Ecco, l’io narrante, il saldatore è un sessantenne che partecipa a una visita guidata (quello che è accaduto a me un anno fa): il personaggio entra nel «mondo Vajont» con le preoccupazioni di un uomo comune: andrò in pensione con le mie gambe? Avrò ancora un po’ di salute? Un io che pensa prima se stesso, e poi, molto dopo, il mondo che lo circonda. Alla fine, non sarà più così, perché avvertirà potentissima la voce delle vittime innocenti, dilaniate, scomparse. E penserà che quella immensa morte collettiva, che si può constatare al Cimitero Monumentale di Fortogna, mostra che il nostro destino è in fondo, sempre collettivo.

Nel suo libro, il dramma del Vajont è presentato come una tragedia simbolo della modernità, allo stesso modo il protagonista cita le molte morti sul lavoro che si susseguono ancora oggi: tutte tragedie che, proprio come il disastro della diga, sembrano però tutto fuorché inevitabili…

Si deve poter fare qualcosa per i morti sul lavoro, più di mille ogni anno, si doveva poter fare qualcosa nei tre anni che precedettero il disastro del Vajont, soprattutto nei giorni precedenti il distacco del Monte Toc. Dare l’allarme, ammettere l’impossibilità di governare quella massa in movimento, immaginare l’ipotesi peggiore: il distacco totale e velocissimo. Tornando ai morti sul lavoro, oggi, intorno a noi: ma li vogliamo almeno far tornare a casa vivi i lavoratori e le lavoratrici?

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