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Ecologia politica e memoria collettiva di un disastro evitabile

foto degli sfollati del VajontGli sfollati del Vajont

Percorsi I libri di Paolo Di Stefano e Riccardo Iacona (Fuori scena), Marco Armiero (Einaudi), Piero Ruzzante e Antonio Martini (Utet). Grazie al lavoro di un pugno di cronisti, su tutti Tina Merlin, si è potuto mettere insieme il ricordo dei sopravvissuti e quello del Paese

Pubblicato circa un anno faEdizione del 7 ottobre 2023

Il 9 ottobre del 1997, nel 34esimo anniversario del disastro, Rai 2 trasmise in prima serata un monologo di due ore dell’attore e autore teatrale Marco Paolini dal titolo: Vajont 9 ottobre 1963. Oltre 3 milioni e mezzo di spettatori seguirono quell’«orazione civile che trasformava la diga in un teatro della memoria». Uno dei più gravi disastri ambientali causati dagli esseri umani veniva raccontato per quello che era stato: una tragedia per molti versi annunciata e, in ogni caso, che si sarebbe potuta evitare. Non a caso, ricorda lo storico dell’ambiente Marco Armiero, «nel 2008 l’Unesco ha incluso il Vajont tra le cinque storie esemplari che possono guidarci verso un futuro sostenibile», dato che quella vicenda «fu un disastro annunciato, una storia piena di presagi e previsioni che avrebbero dovuto suggerire scelte di precauzione». Presidente della European Society for Environmental History, Armiero indaga in La tragedia del Vajont (Le vele Einaudi, pp. 146, euro 12) non solo ciò che quel dramma ci dice del nostro recente passato e del modo in cui ha preso forma l’idea contraddittoria di modernità nella quale siamo cresciuti, ma anche quanto può anticipare in maniera davvero sinistra del nostro futuro.

«AFFACCIATI DALLA DIGA del Vajont – scrive infatti Armiero – sembra di toccare con mano questo Antropocene ci cui tanto si parla», che, in questo caso, assume la forma «di un disastro incombente causato dall’arroganza umana, una storia dove presagi e segnali non sono mai sufficienti a fermare la marcia inesorabile del progresso in nome della precauzione». I circa duemila morti causati dalla frana e le enormi distruzioni che hanno cambiato per sempre il volto di questa zona montana compresa tra Veneto e Friuli si sarebbero potuti evitare, ma non andò così, esattamente come oggi si fatica a comprendere che solo un cambio di prospettiva potrà metterci al riparo dal ripetersi di disastri ambientali che interrogano prima di tutto le scelte dell’uomo. Del resto, ricorda ancora Armiero, «se c’è una cosa che il Vajont insegna è che la scienza ha molto a che fare con il potere».

In questo senso, come ha spiegato Marco Paolini – che in occasione del 60esimo anniversario della tragedia ha lanciato il progetto collettivo «VajontS per una Orazione Civile Corale», «quella del Vajont è la storia di un avvenimento che inizia lentamente e poi accelera. Inesorabile. Si sono ignorati i segni e, quando si è presa coscienza, era troppo tardi. In tempo di crisi climatica, non si possono ripetere le inerzie, non possiamo permetterci di calcolare il rischio con l’ipotesi meno pericolosa tra tante. Tra le tante scartate perché inconcepibili, non perché impossibili».

Anche di fronte a questa mesta ricorrenza torna perciò prepotente il tema della scelta, di chi e come decide per il futuro degli altri, di tutti. Ancora una volta, il passato torna ad interrogare prepotentemente il presente. «Non si capisce il Vajont senza connettere la geologia del Monte Toc e il potere economico e politico della Società adriatica di elettricità (che realizzò la diga, nda), la marginalità della montagna italiana e la subalternità dell’accademia al potere economico e politico», precisa Marco Armiero, prima di concludere che, da questo punto di vista, «l’ecologia è sempre politica».

A tale elemento, si deve poi aggiungere il «modello Vajont» che evoca Riccardo Iacona in una delle due introduzioni, l’altra la firma Paolo Di Stefano, al volume che inaugura il catalogo delle edizioni Fuori scena: Mai più Vajont (pp. 224, euro 16, 50).

RIPROPONENDO la tragica attualità di quanto accaduto nel 1963 nel contesto odierno del nostro Paese, il conduttore di Presa diretta (Rai 3) mette in relazione i fatti del Vajont con il crollo del ponte Morandi a Genova nell’agosto del 2018 che provocò 43 morti e centinaia di sfollati. Pur con le evidenti differenze, in entrambi i casi «il processo di rimozione e sottovalutazione dei pericoli è soprattutto alimentato da ragioni di natura economica: a prevalere è la logica del profitto». Fermare la costruzione della grande diga del Vajont dopo gli ingenti costi sostenuti dalle imprese coinvolte non fu neppure preso in considerazione e, allo stesso modo, «fare le manutenzioni straordinarie sul viadotto Polcevera» avrebbe significato una perdita secca: «decine e decine di milioni di euro in meno di ricavi». Oltre alla colpevole alterazione del contesto naturale, foriera di rischi pressoché certi per la popolazione, emerge «il modello italiano» di gestione privatistica e speculativa di spazi e beni che coinvolgono tutti.

Così, Mai più Vajont racconta attraverso un’antologia che raccoglie gli articoli e i reportage più importanti che sono stati dedicati al caso – a partire da quelli redatti da Tina Merlin, la coraggiosa cronista bellunese dell’Unità che per prima denunciò i rischi insiti nella costruzione della diga, fino a quelli, tra gli altri, di Giorgio Bocca, Alberto Cavallari, Corrado Stajano, Sandro Viola e Dino Buzzati -, come la denuncia della crisi ambientale sia stata annunciata in Italia dalle battaglie civili che chiedevano verità e giustizia in nome delle vittime innocenti delle scelte sbagliate del potere economico e politico. Battaglie che, attraverso l’impegno determinato di un pugno di cronisti, come poi di intellettuali o artisti come Marco Paolini, hanno saputo mettere insieme «la memoria dolente dei sopravvissuti e la memoria della collettività nazionale», come suggerisce Paolo Di Stefano.

PERCHÉ RICORDARE oggi i fatti del Vajont equivale ancora ad una sfida, ad una ricerca di verità celate negli angoli della Storia, ad una necessità di conoscere che non è mai neutra. Come dimostra il lavoro meticoloso condotto da Piero Ruzzante, con Antonio Martini, per il volume L’acqua non ha memoria (Utet, pp. 300, euro 19) che racconta quanto avvenne nel 1963 rimettendo insieme le voci dei sopravvissuti, i documenti d’archivio e le carte processuali, fino a far riemergere le vicende personali e collettive della tragedia. Quella di Ruzzante è una ricostruzione minuta degli avvenimenti, sorretta da una straordinaria documentazione, che non dimentica però ad ogni pagina che è prima di tutto delle vite perdute di migliaia di persone che si sta parlando. Questa «memoria ritrovata» è un atto di coraggio civile che si compie nella profonda empatia verso le vittime e i sopravvissuti del Vajont.

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