Fra non molto saranno trascorsi quarant’anni dalla scomparsa di Anthony Blunt – ai suoi tempi uno dei più famosi storici dell’arte per diventare subito dopo detestato come spia sovietica nel proprio paese. Poche sono le voci che l’hanno difeso da quando Margaret Thatcher lo denunciò pubblicamente come traditore nonostante il governo inglese avesse da qualche anno patteggiato con lui la sua impunità. Infatti l’unica prova esistente della sua colpevolezza era l’ammissione di colpa da lui stesso indicata. Solo raramente si sono alzate delle voci in sua difesa: in Italia lo fece Raffaello Causa in un articolo di giornale oggi purtroppo andato disperso.

Lo feci anch’io allora relativamente troppo giovane e lo fece con ben altra importanza soprattutto André Chastel nel suo necrologio, del 1983, nel «Burlington Magazine» con un’assoluzione urbi et orbi: «Nonostante qualche occasionale, secondario punto debole, nonostante qualche omissione e forse anche qualche errore, un tale maestro, la cui statura rimarrà evidente agli occhi di chiunque, merita il nostro omaggio» (Silvia Ginzburg (a cura di), Obituaries. 37 epitaffi di storici dell’arte del Novecento, Electa, 2008).

Vengo da un paese nel quale fatti di questo genere sono accaduti più volte e ciò mi è servito a capire come le dannazioni assolute non devono essere proferite se non con grande cautela: la politica è una guida difficile da capire e difficile da condividere senza molti dubbi.

Avevo conosciuto Sir Anthony a Firenze, dov’era venerato dai suoi colleghi inglesi e italiani negli anni sessanta, e fra noi si stabilì un ottimo rapporto. Tempo dopo, verso il 1976, si cominciò a parlare di un’esposizione sull’arte napoletana dell’epoca dei Borbone, da Carlo III a suo figlio Ferdinando IV; s’istituì quasi subito un comitato presieduto dal sovrintendente della Campania, Causa, e da Blunt, all’apice della gloria, autore di volumi famosi, direttore da molti anni del Courtauld Institute di Londra e nel contempo curatore delle opere d’arte della collezione reale.

Le prime riunioni per la mostra si tennero nella residenza ufficiale di Causa, nella Certosa di San Martino, con una delle più belle vedute d’Europa. Si decise allora di affidare a me la sezione delle arti decorative; a Nicola Spinosa, la pittura napoletana; a Jean-Patrice Marandel, del museo di Detroit, i pittori stranieri attivi a Napoli. A Giancarlo Alisio infine toccò occuparsi dell’architettura mentre a Fausto Zevi dell’antichità.

Quella è rimasta sempre forse la più bella esperienza della mia vita e lavorare con Blunt e con Causa una lezione indimenticabile. Ma nessuna esperienza umana è eterna. Sir Anthony si servì della sua indiscutibile autorità per sedare gli animi fra le persone menzionate e altre ancora che non sto qui a nominare. Quando diveniva necessario egli era in grado di regolare l’andamento di incontri difficili e di trovare una soluzione per ogni cosa. Ma via via che i lavori avanzavano Blunt appariva sempre più stanco, talvolta assente, non sempre sobrio: si sapeva che nonostante le sue amichevoli relazioni con la casa reale (era cugino in secondo grado della Regina madre) e i suoi impegni accademici e mondani, Blunt aveva rapporti che denotavano un marcato interesse per la sinistra, come a quanto pare era successo con i suoi vecchi commilitoni dell’università di Cambridge.

Un giorno accadde un fatto molto increscioso: la signora Thatcher, da qualche mese primo ministro, dichiarò ufficialmente che Anthony Blunt (non più Sir) era stato una spia prima, durante e dopo la guerra. Le reazioni in Inghilterra furono violente. In Italia però erano accaduti lungo il tempo molti fatti politici del genere e comunque eravamo in una nazione in cui il senso della storia si è dimostrato sempre più distaccato quando non addirittura cinico. Le conseguenze furono durissime e il nostro amico dovette rinunciare a tutti i suoi incarichi e riconsegnare le infinite onorificenze di cui era stato insignito da molti paesi. Anche se da noi nessuno glielo aveva chiesto, si dimise dalla direzione della nostra esposizione.

Molti napoletani non sempre riaffermarono la loro simpatia per Blunt capeggiati dal suo vecchio collega Roberto Pane; Raffaello Causa invece scrisse un articolo molto cordiale in cui metteva in risalto come le guerre generassero ogni sorta di posizione non comprensibile del tutto finché non fosse passato molto tempo – apprezzava Blunt e salutava in lui il grande studioso, l’amico dell’Italia e dell’arte italiana, soprattutto di Napoli e del meridione. Per un mio scritto apparso ne Il Giornale (di Montanelli) ebbi una lettera di Anthony il 17 dicembre 1979, da cui traduco alcune frasi: «Che posso dire per ringraziarti di avere scritto su di me, in questi momenti, delle parole tanto affettuose? Come puoi immaginare è molto triste dover cancellare il mio rapporto con la mostra, così, all’ultimo momento, ma almeno ora so che sarà un grande successo, in parte per merito tuo. Vedo da quanto citi sulle mie osservazioni, che non le hai dimenticate. Ti benedico per la tua tolleranza e sono molto commosso dal magnifico scritto di Causa… Il 22 dicembre brinderò alla tua salute e a quella di Napoli».

Il dettaglio pittorico è tratto da Nicolas Poussin, “L’Inspiration du poète”, Parigi, Louvre, ed era la copertina del catalogo della mostra “Nicolas Poussin” curata da Blunt nel 1960

Ho scritto altrove come i lunghi periodi passati a Napoli in quell’epoca coincidano con quella che Conrad chiamava «la linea d’ombra che divide in due la vita di un uomo». Quello che in una parola è l’ultima eco della gioventù, quando i padri sono ancora vivi, seppur non per molto, coincide dunque con l’ultima volta in cui si può incolpare qualcuno di ogni nostra inadempienza: non ero ancora passato in prima fila né mi sentivo puntati addosso i riflettori del giudizio altrui. Le scoperte che dopo ci lasceranno distaccati, in quei tempi lontani ci riempivano di stupore e restano sentimentalmente irripetibili.

La mia vicenda umana con Anthony Blunt, iniziata a Firenze, durò una ventina d’anni fino alla sua morte ed ebbi occasione d’incontrare molti di quelli che erano stati i grandi amici e i nemici della sua vita: da una parte Denis Mahon, all’opposto di quel che era il centro dell’attenzione accademica di Anthony, Nicolas Poussin; dall’altra Benedict Nicolson, direttore del «Burlington Magazine per lunghissimi anni e anche, per suo volere, suo vice come surveyor delle collezioni reali. Conobbi bene altri personaggi come Lord Clark, Kenneth Clark, che fu spesso dalla sua parte ma seppe sempre navigare con grande perizia le acque agitate del mondo artistico di tutta Europa. Lo stesso mi capitò con Sir John Pope-Hennessy, direttore del Victoria and Albert Museum e poi passato a New York al Metropolitan Museum.

Gli amici di Blunt includevano anche personaggi che si dimostrarono forse pericolosi come Guy Burgess, nota spia, omosessuale piuttosto esibizionista che possedeva un appartamento a Bentinck Street considerato un bordello gay e un nido di vipere. Erano ormai tramontati i tempi in cui in Inghilterra le diverse inclinazioni sessuali venivano considerate illegali e comunque Blunt non era uomo da farsi intimidire da queste circostanze. Non fece mai bandiera delle sue inclinazioni ma neanche le nascose e a quanto pare il suo modo di reagire ai violenti attacchi che gli vennero mossi fu piuttosto algido: «È tutto un combattimento fra indiani e cowboys», rispose, come se stesse parlando di un film western, quando venne interrogato direttamente in un programma televisivo.

In un’occasione in cui gli consigliai di venire a vivere in Italia dove continuava ad essere sempre rispettato, rispose che non intendeva farlo, restava dove era sempre stato e dove considerava suo dovere rimanere, affrontando con chiarezza e responsabilità quel che aveva fatto, dimostrandosi talvolta persino arrogante. Ma nonostante sembrasse indifferente a insulti e persecuzioni di ogni genere (per molti erano più che meritati) non riuscì a sopravvivere a lungo a quel che era accaduto (Mrs. Thatcher iniziò il suo attacco nel novembre del 1979 ed egli morì di un infarto devastante il 26 marzo del 1983). Ciononostante le avversità non gli impedirono di redigere A guide to baroque Rome, del 1982, e portò in parte a compimento una monografia sull’architettura di Pietro da Cortona insieme allo studioso tedesco Jorg Martin Merz (Pietro da Cortona and Roman Baroque Architecture, Yale University Press 2008).

Se le opinioni su una personalità così complessa sono varie e contraddittorie, uno dei suoi grandi amici, Victor Rothschild, affermò di essere sempre stato molto impressionato dai suoi high moral and ethical principles; io nonostante tutto ho sempre condiviso quest’opinione e ho anche notato come Blunt fosse tutto fuori che un epicureo, ciò che rifletteva anche la sua casa composta di ambienti che assomigliavano più alle celle di un monastero nonostante possedesse alcuni quadri magnifici (uno di questi, un Poussin, si conserva nel Fitzwilliam Museum di Cambridge). Un suo allievo, Neil MacGregor, direttore della National Gallery, notava com’egli era contento di fare quel che faceva terribly well e come godesse della sua innegabile abilità a tenere la sua vita divisa in modo totale, non sempre comprensibile; suo fratello Wilfrid ricordava come Anthony fosse un ottimo attore, condizione imprescindibile per essere un’ottima spia.

Potrei a questo punto citare l’opinione del premio Nobel russo (poi americano) Joseph Brodskij, il quale riteneva che a Blunt non interessasse affatto il marxismo: stando a lui, aveva fatto quel che aveva fatto per divertimento, per manipolare delle persone, per tenere la mente occupata, per amore del pericolo. Brodsky arrivava alla conclusione che fosse impossibile conoscere il vero Blunt poiché era un esempio perfetto di ciò che può definirsi «contro-realtà».

Forse non sono in grado ancora oggi di dire chi fosse Anthony Blunt ma certamente non era una persona come tutte le altre. A volte poteva sembrare incomprensibile, altre remoto, altre vicino come lo sono i maestri e i grandi amici. Chi è in grado di giudicare sempre?