Anthony Clark, preda di un incantesimo, il Settecento romano
Carlo Orsi organizza, nella galleria di Nicholas Hall a New York, una mostra su Anthony M. Clark nel centenario della nascita Il grande storico dell'arte di Filadelfia fra tardo barocco, 'barocchetto' e nuovo classicismo. Riproponiamo uno scapricciato ritratto al vivo, "in mortem", del 1976
Carlo Orsi organizza, nella galleria di Nicholas Hall a New York, una mostra su Anthony M. Clark nel centenario della nascita Il grande storico dell'arte di Filadelfia fra tardo barocco, 'barocchetto' e nuovo classicismo. Riproponiamo uno scapricciato ritratto al vivo, "in mortem", del 1976
Fu nei secondi anni cinquanta che Anthony M. Clark cominciò a calarsi, quasi esistenzialmente, nell’arte romana del Settecento: proscritto dalla scuola longhiana in una stagione tutta caravaggesca, quel raffinato insieme di tardo barocco, ‘barocchetto’ e nuovo classicismo doveva essere riscoperto da un occhio esterno, occhio di cultore votato alla ricerca serissima e perfino capziosa, l’occhio dell’americano di Filadelfia, nato nel 1923 e morto, a soli 53 anni, nel 1976.
Questa riscoperta non avrebbe avuto corso senza il solido contributo del mondo antiquariale, che favorì il gusto-Clark di certo collezionismo americano anni cinquanta-sessanta, un gusto oggi celebrato a New York, per merito di Carlo Orsi e Nicholas Hall, con la mostra in ricordo dello storico dell’arte nel centenario della nascita. Il titolo è tratto da Goethe: The Hub of the World: Art in 18th Century Rome; aperta fino al 30 novembre nella galleria di 17 East 76th Street.
Insieme a una selezione di taccuini personali e a un raro ritratto fotografico di Clark, prestati dalla National Gallery of Art Library, Washington D.C., sono oltre cinquanta le opere esposte, di artisti che vissero o viaggiarono a Roma nel XVIII secolo. Pompeo Batoni fu il beniamino di Clark, che non ebbe il tempo di vedere stampata la monografia-catalogo cui lavorava da anni, oggi disponibile nell’edizione Phaidon, 1985, a cura di Edgar Peters Bowron. Il maestro lucchese romanizzato è ben rappresentato in mostra, p. e. da un San Luigi Gonzaga e relativo disegno preparatorio in gesso rosso. Tra le altre opere: il Raccolto della canapa a Caserta eseguito da Jackob Philipp Hackert per il re di Napoli; un ritratto del cardinale Carlo Rezzonico di Anton Raphael Mengs; un dipinto di Villa Albani di Vanvitelli; una scena di porto su rame di Claude Joseph Vernet; una caricatura di Joshua Reynolds R.A.; una Vestale di Jacques-Louis David, dipinta a Roma; due gentiluomini inglesi davanti all’Arco di Costantino ritratti da Anton von Maron; il «Rockingham Silenus», la scultura del I secolo rielaborata da Bartolomeo Cavaceppi; il ritratto, caricaturato, bizzarro, dell’artista Paolo de Matteis dipinto da Pier Leone Ghezzi e un tempo appartenuto a Clark.
A documentare il fastoso intreccio delle espressioni nella scena del mecenatismo ‘cardinalizio’ romano non potevano mancare le arti decorative: un set di candelabri a forma di Antonius-Osirus di Luigi Valadier e una consolle disegnata da Piranesi e realizzata per la Sala Egizia di Palazzo Borghese.
Il catalogo, riccamente illustrato, della mostra include gli scritti di Edgar Peters Bowron, Missy Lemke, J. Patrice Marandel, oltre a quello di Alvar González-Palacios, steso per la morte di Clark nel 1976, che qui riproponiamo.
La prima impressione era quella di un uomo timido, un po’ impacciato nella mole erculea del corpo e il bagliore vitreo degli occhiali. Un uomo timido ma forse anche un po’ malinconico, un po’ burbero e scontroso. Poi c’era un sorriso e lentissimamente si faceva avanti un senso di malizioso calembour intellettuale, arguto ed ironico, mai sarcastico. Le gambe e le braccia lunghissime erano pronte per una caricatura del suo riverito Pierleone Ghezzi e la vaga tristezza poteva confarsi all’aura di un ritratto del suo eroe, Pompeo Batoni: questi suoi amici li frequentò per anni al punto di conoscerli così profondamente da restarne quasi sbigottito. Sapeva delle loro abitudini, dei loro vizi, del loro charme personale quanto della loro arte e li difendeva come si difendono dei parenti non amati da tutti. Con una passione che non riusciva del tutto a celare un’ombra di fastidio, li avrebbe voluti più geniali, più amabili.
Ma Tony Clark era ormai in preda ad un incantesimo e si trovava a proprio agio soltanto fra le carte, i libri e le testimonianze del Settecento a Roma. Le notizie che aveva raccolto negli ultimi vent’anni gli uscivano letteralmente dalle tasche, minuscoli biglietti che avevano il formato del Diario Ordinario del Chracas, in una calligrafia preziosa e delicata come quella di Aramis. La sua scienza, molto più profonda di quanto voleva far apparire, vergognoso della propria erudizione, era condita di aneddoti, di battute spiritose, di piccoli trick mnemonici, di definizioni penetranti e rare. Talvolta era anche severo ma non sembrava mai restare del tutto coinvolto: giudizi negativi a fior di pelle, quasi scatti di impazienza o di irritazione passeggera.
I rapporti con l’uomo non erano sempre facili a causa di una certa tendenza, come dicevo, ad una timidezza irritata; con lo studioso invece tutto filava liscio come sull’olio e di generosità nel sapere era esempio scelto. Lettere, fotografie, consigli, appunti, xerocopie delle sue note, arrivavano puntualissimi, conditi da un entusiasmo inesauribile per tutto quanto riguardasse la storia dell’arte, soprattutto se l’assunto toccava uno dei suoi famigliari settecenteschi. L’uomo era anche capace di assumere posizioni decise e di difenderle come un soldato che compie il proprio dovere.
La sua lunga attività come direttore dell’Institute of Arts di Minneapolis conferì alla raccolta importanza internazionale. La scelta degli acquisti fu molto varia e se si pensa che comprende dei capolavori come l’Immacolata del Grechetto, la Diana Ottoboni del Gaulli, il ritratto di un cardinale del Costa (da alcuni considerato opera giovanile del Correggio), il Sant’Ambrogio di Claude Vignon, l’Unione dell’Amore e dell’Amicizia del Prud’hon, la Negazione di San Pietro di Gherardo delle Notti, il Fumatore di Manet e ancora tanti dipinti di Vouet, Le Brun, Solimena, Giaquinto, De Mura, Gauffier, De Chirico, si intende quanto la sua presenza sia stata proficua per la storia dell’arte europea negli Stati Uniti.
Ma il suo interesse e la sua conoscenza non si limitavano alla pittura: anche nel campo di cui mi occupo, le arti decorative, non era mai di scarso lume quanto Tony aveva da dire. Basti pensare che solo tre oggetti scelti per Minneapolis – la consolle Rezzonico del Piranesi, il calamaio in argento donato a Pio VI e opera di Vincenzo Coaci, il tabernacolo del maggior bronzista del tardo barocco romano, Giovanni Giardini – sono tre capolavori assoluti, certamente i tre più begli esempi, ognuno nel proprio settore, di quanto si custodisce nel nuovo mondo.
Accanto a questa sua attività civica si svolgeva quella privata, che includeva una scelta raccolta di opere dei suoi famigliari – dal Canova al Batoni (presente con varie tele), dal Cades al Costanzi, dal Ceccarini al Mengs e al Maron, non c’era artista attivo a Roma tra il pontificato di papa Albani a quello di papa Braschi che non fosse in qualche modo rappresentato nella sua antologia personale. L’appartamento in cui visse negli ultimi anni, al 970 di Park Avenue, era come un microcosmo da colto prelato, squisitamente maniacale, dove ammiccavano ovunque i ricordi di un Grand Tour che si rinnovava ogni estate arricchendosi sempre di altri cimeli. La raccolta di disegni del Settecento che comprendeva centinaia di fogli era particolarmente istruttiva, divenendo uno dei nuclei maggiori dell’argomento, dovutamente ordinati. La sua andata a New York coincise col suo arrivo al Metropolitan Museum ma, nonostante i primi successi, i contrasti politico culturali lo portarono a dimettersi violentemente.
A tutti dispiace che Tony Clark non abbia scritto di più, non solo perché quanto pubblicava era sempre illuminante e intelligente ma anche perché era un piacere leggere delle note erudite a cui non mancavano mai spirito e arguzia.
Conobbi Tony verso il 1965, presentatomi a Roma da Giuliano Briganti: volevo incontrarlo perché ero stato invitato a Lucca da Isa Belli Barsali come aiuto nella mostra che si stava preparando su Pompeo Batoni e sentivamo il bisogno assoluto, per il catalogo, di una presentazione di Tony. Redasse un lungo saggio: La carriera professionale e lo stile del Batoni, seguito dall’elegante scritto Pompeo Batoni e gli Inglesi di Francis Haskell, che conobbi nella stessa occasione. Furono loro a presentarmi altri amici meravigliosi che includevano Hugh Honour, John Fleming, John e Eileen Harris.
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