Il vero protagonista del romanzo Il Matto, la Prostituta e lo Scrittore non è né un matto, né una prostituta né uno scrittore. È una città, Diyarbakir (Amed in curdo), «capitale» di un territorio che non è uno Stato, ma di certo è una nazione, il Kurdistan storico. È la protagonista, seppur non ne venga mai citato il nome, perché è lei – con i suoi spazi antichi trasfigurati da decenni di strisciante luccichio della contemporaneità capitalista – a imporre il destino ai tre personaggi del romanzo dell’autore curdo Firat Cewerî, tradotto da Francesco Marilungo per Calamaro Edizioni (pp. 144, euro 14).

NELLA CITTÀ, i tre si incontrano per pochissime ore, quelle brevi ma cariche nel quale è condensato il racconto, e dalla città estraggono le ragioni di un dolore personale e collettivo che sta dettando la loro esistenza. Per Temo è la pazzia germogliata in quindici anni di carcere, dimenticato dai compagni che con lui avevano condiviso l’impegno politico e ora proteso verso una vendetta di sangue puramente casuale; per Diana è la schiavitù della prostituzione tra le inquietanti mura di una gelateria dai colori pastello, opzionata in cambio della vita sua e dei guerriglieri ancora in montagna; e per lo scrittore, inchiodato dall’autore a un punitivo anonimato, è la letteratura in esilio.
Le tre diverse destinazioni originano da un’identica sorgente: l’adesione al movimento di liberazione del Kurdistan, immaginato da ciascuno come strumento di rinascita collettiva, li conduce in realtà a disfare le proprie vite, a ricevere indietro il degrado della solitudine e lo stigma del fallimento. Perché la città, che avevano sognato libera, non li vede nemmeno. Non vede Temo, non vede Diana. E se li vede, li giudica con disprezzo, vite ripugnanti da evitare – il Matto – o da privare della dignità – la Prostituta – riconoscendo superficiale legittimità e banale riverenza solo allo Scrittore impegnato in una fuga che è un’auto-persecuzione.

SE IL FORTUITO incontro delle tre vite fa immaginare, se non una redenzione, per lo meno una via di uscita dalla sofferenza inaspettatamente condivisa, a emergere dalle pagine del romanzo è l’abissale distanza tra le piccole stanze in cui i tre personaggi si raccontano e l’apatico spazio aperto di una città ostaggio di un antico colonialismo ma che si pretende borghese e si sogna aristocratica.

Firat Cewerî – uno dei pochi esempi di autore curdo che decide di scrivere nella propria lingua madre, per secoli colonizzata e privata di una sua letteratura come scrive nella nota introduttiva il traduttore Marilungo – ha il merito di narrare con una penna onirica, a tratti surreale, scavando nei pensieri più intimi e terrorizzanti e traducendo in carne viva, fisica, le elucubrazioni più distopiche di tre anime in fiamme. Una penna che segue, forse senza volerlo, lo stile che da anni ormai è tra le cifre più ricorrenti della fiorente e modernissima letteratura mediorientale.