L’anguilla, viaggiatrice instancabile, che può percorrere nell’arco della sua straordinaria vita, fino a 7.000 chilometri per raggiungere il Mar dei Sargassi, è sotto scacco e sotto sale a tutti gli effetti: infatti è sul podio delle specie più a rischio, superando il panda.

ORMAI, IL 95% DELLA POPOLAZIONE in età riproduttiva si è estinta, tanto da essere classificata dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) una specie in «pericolo critico di estinzione». A poco dunque sono servite le misure introdotte a livello europeo a partire dal 2007 e il fermo pesca di 3 mesi adottato nel 2018 e finalizzato alla protezione dell’anguilla al termine della sua maturità sessuale, quando è chiamata «argentina» durante il suo periodo migratorio. Quest’ultima misura, in particolare, è risultata inefficace perché non ha impedito agli stati membri di aumentarne costantemente lo sfruttamento.

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TANTO CHE IN ITALIA GLI ULTIMI DATI relativi al 2021 riportano ben 50 tonnellate di catture di anguilla gialla e argentina destinate alla vendita. Da allora sono stati fatti solo timidi passi in avanti per proteggere in qualche modo la specie a rischio: nel Decreto Ministeriale dello scorso 13 marzo recante Nuove disposizioni nazionali per la gestione della pesca della specie Anguilla europea (Anguilla anguilla) sono stati introdotti tre mesi aggiuntivi di divieto di pesca, che viene così esteso da gennaio a giugno, e un divieto di pesca sportiva della specie su tutto il territorio nazionale ma solo per l’anno in corso.

«UNA MISURA CHE NON AFFRONTA la gravità della situazione – dice Domitilla Senni di MedReAct – visto che secondo l’ultimo avviso scientifico emesso dal Consiglio Internazionale per l’Esplorazione del Mare (CIEM) bisognerebbe attuare un divieto di pesca totale fino al recupero della specie». Inoltre i prelievi continuano a essere autorizzati anche durante i periodi di migrazione dell’anguilla in ben nove regioni italiane.

IL DECRETO APPENA APPROVATO si riferisce infatti a quelle regioni che attuano il Piano Nazionale di Gestione dell’Anguilla europea, ovvero Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Puglia, Umbria e Sardegna, dove esiste una pesca stagionale e ricreativa dell’anguilla gialla e argentina nelle acque interne, compresi estuari e lagune.

LA SARDEGNA E L’EMILIA ROMAGNA catturano la maggior parte delle anguille, seguite da Veneto, Toscana, Puglia e Lazio. Mentre per le altre regioni che non hanno aderito al Piano nazionale, è previsto il divieto totale di pesca. Diverse sono le cause del declino dell’anguilla europea.

L’INQUINAMENTO DEGLI AMBIENTI MARINI, costieri e fluviali unito allo storico sfruttamento sono tra i fattori più critici per la sua sopravvivenza. A questo si aggiungono le barriere costruite sui corsi d’acqua come le centrali idroelettriche, dighe e altre infrastrutture che costituiscono ostacoli alla migrazione. Ma il fattore più devastante rimane la pesca, commerciale e soprattutto ricreativa.

LE CATTURE RIGUARDANO ESEMPLARI nei tre stadi principali del loro ciclo vitale: cieca, gialla e argentina. Poiché l’anguilla non si riproduce in cattività, le catture delle anguille cieche finiscono negli allevamenti, dove vengono ingrassate prima di essere introdotte sul mercato. Un po’ come si fa per tutti gli animali da allevamento. Anche le recenti attività di ripopolamento delle anguille, ovvero la rilocazione in altre acque, ritenute da alcuni paesi europei necessarie per la conservazione della specie, sono considerate nocive per la potenziale diffusione di malattie e l’interruzione dei comportamenti migratori.