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Acquacoltura, una scommessa per produrre cibo e salvare i mari

Acquacoltura, una scommessa per produrre cibo e salvare i mari

Pesca Quello delle «fish farm» è uno dei settori produttivi più promettenti, la sfida è riuscire a «coltivare» pesci nel rispetto di parametri di sostenibilità molto esigenti. I dubbi rimangono

Pubblicato più di un anno faEdizione del 11 maggio 2023

Le stime di crescita della popolazione parlano di 9,1 miliardi nel 2050, circa il 34% in più rispetto a oggi. Tante bocche da sfamare e la necessità, secondo le Nazioni Unite, di aumentare la produzione alimentare del 70%. Una grande sfida, considerato che l’aumento va coniugato con il rispetto di parametri di sostenibilità sempre più esigenti. I riflettori sono dunque puntati su alcuni settori produttivi che sembrano promettenti, tra cui c’è senz’altro l’acquacoltura che, secondo la Fao, dovrebbe aumentare a livello globale la produzione tra il 35 e il 40% entro il 2030. Secondo l’ultimo Report della Fao, The State of World Fisheries and Aquaculture, la produzione globale dell’acquacoltura, che nel periodo 1990-2020, è aumentata del 609%, con un tasso di crescita medio del 6,7% annuo, ha registrato nel 2020 numeri record arrivando a 87,5 milioni di tonnellate di animali acquatici destinati principalmente all’alimentazione umana.

PER QUELLO CHE RIGUARDA L’ITALIA, i dati pubblicati da API – Associazione piscicoltori italiani – mostrano che il settore dell’acquacoltura nel 2019 ha prodotto circa 62 mila tonnellate di pesce (principalmente trote, orate e spigole, il cui valore complessivo va oltre i 300 milioni di euro. Un settore, quello delle fish farm, sempre più attenzionato, perché potenzialmente in grado di soddisfare allo stesso tempo sia la crescente domanda di cibo e di proteine sia i parametri di sostenibilità. Ma se questo è senz’altro vero per i bivalvi (cozze, vongole, capesante) che non richiedono grandi quantità di energia e carburante per essere raccolti e favoriscono lo sviluppo di alghe che catturano la CO 2, lo è meno per gli allevamenti di gamberi e di pesce le cui emissioni sono rispettivamente di 6 e 3,5 volte superiori.

INSOMMA, LA REALTA’ E’ MOLTO PIU COMPLESSA degli slogan e trovare una soluzione non è una sfida da poco. Una cosa però è certa: in molti ci stanno provando. Tra questi c’è il Dipartimento di Scienza della Vita e dell’Ambiente dell’Università Politecnica delle Marche che da anni studia sistemi per migliorare la sostenibilità e il benessere del pesce di allevamento e che ha recentemente istituito il Master in Acquacoltura del futuro: innovazione tecnologica e gestionale a favore di sostenibilità e redditività, coordinato dal professor Ike Olivotto. Lui non ha dubbi: «I sistemi di allevamento stanno diventando sempre meno impattanti, grazie anche alle nuove tecnologie e agli investimenti nella ricerca scientifica. La mangimistica sta sperimentando nuove fonti proteiche derivanti, ad esempio, da farine di insetti e da scarti avicoli a cui si aggiunge la tecnologia delle single cells proteins, proteine che derivano dalla coltivazione di microalghe, funghi e batteri. Due importanti passi avanti rispetto alla conversione, iniziata dagli anni ’90, verso le formulazioni mangimistiche vegetali che però non sono del tutto adatte a specie carnivore. Olivotto racconta i vari sistemi di allevamento virtuosi già attivi: da quelli che utilizzano materiali biodegradabili invece della plastica, all’acquaponica, che promuove il risparmio idrico e il riutilizzo dei prodotti di scarto dei pesci per la coltivazione di piante particolari, come lo zafferano o lo zenzero.

INOLTRE CI SONO GLI ALLEVAMENTI CHE INTEGRANO più specie, ad esempio pesci, cozze e alghe, che si alimentano reciprocamente, l’una con gli scarti dell’altra, creando una sorta di circuito virtuoso ed energetico che coniuga risparmio e ottimizzazione della produzione. «Tutti sistemi concepiti tenendo conto non solo della sostenibilità ma anche del benessere animale», assicura Olivotto. Un punto centrale, quest’ultimo, rivendicato da più parti ma che, a quanto dicono le organizzazioni di animalisti, rimane ambiguo.

SECONDO ELISA BIANCO DI «ESSERE ANIMALI», infatti, anche la certificazione nata, su iniziativa dei produttori italiani, nel 2020, quando l’acquacoltura sostenibile è stata inserita nel sistema di qualità nazionale zootecnica, validata dal ministero e poi successivamente modificata con decreto ministeriale a gennaio 2022, non elimina i dubbi. Anzi li fa venire. «Nonostante il disciplinare di certificazione nomini più volte il miglioramento del benessere animale – dice – in tutto il documento non è presente una sola definizione chiara e mancano quei parametri di base necessari per eliminare nella pratica le principali cause di sofferenza per i pesci negli allevamenti». Tra queste, l’elevata densità, che comporta, tra le altre cose, alti livelli di competizione, e il problema del fine vita su cui il disciplinare non riporta indicazioni. «Nella maggior parte dei casi i pesci vengono lasciati morire per asfissia, all’aria o in miscele di acqua e ghiaccio, con una sofferenza acuta che può durare fino a 40 minuti prima della morte».

CONSIDERATO CHE LA COMMISSIONE EUROPEA identifica lo stordimento dei pesci come una priorità su cui lavorare, «una certificazione che non ne fa alcun riferimento, neanche per le trote per le quali nel resto d’Europa sono già in uso da diversi anni validi sistemi, non può essere considerata una garanzia valida di sostenibilità». Insomma, non si può parlare di sostenibilità se non è assicurato il benessere animale.

UN BEL DILEMMA PER IL CONSUMATORE che per fare la spesa oggi dovrebbe prendere una laurea. Per fortuna alcune indicazioni chiare ci sono e arrivano da alcune certificazioni che hanno deciso di aggiungere ai loro standard l’obbligo di stordimento, Asc (Aquaculture stewardship council), Marine Stewardship Council (Msc) e Friends of the Sea, uno standard indipendente, quest’ultimo, che certifica con un bollino sia i prodotti provenienti dalla pesca sia quelli da acquacoltura. «Affidarsi a certificazioni come queste è l’unico modo per essere sicuri che vengano rispettati, oltre ai parametri di sostenibilità, anche quelli di benessere animale”, dice Bianco. L’altra strada è la scelta di prodotti da acqualcoltura biologica. Come per le altre pratiche zootecniche biologiche, anche per l’acquacoltura la normativa (Reg. Ue 2018/848 e decreti attuativi) è particolarmente attenta alla salute e al benessere dei pesci, grazie all’impiego di metodologie di allevamento che assicurano ampi spazi per il pascolamento, acque di buona qualità e ben ossigenate e l’utilizzo di impianti che rispondono alle esigenze comportamentali e fisiologiche delle specie ittiche allevate.

CERTO, COME DICE ALBA PIETROMARCHI, ittiologa e ricercatrice per FIRAB (Fondazione Italiana per la Ricerca in Agricoltura Biologica e Biodinamica), «rimangono alcune criticità, soprattutto di tipo economico che ricadono sul consumatore. E’ anche vero che quest’ultimo è sempre più attento agli aspetti di sostenibilità, benessere animale e qualità del prodotto e il mercato non potrà che adeguarsi a questo nuovo trend. «Per questo – conclude Pietromarchi – le istituzioni dovrebbero prevedere azioni di sensibilizzazione e formazione di produttori e consumatori per valorizzare un prodotto che rappresenta una soluzione per l’alimentazione del futuro». Anche per andare incontro alla necessità di limitare le catture per favorire la riproduzione degli stock che, soprattutto nel Mediterraneo, il mare più sfruttato al mondo, sono ormai al collasso.

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