Andrej Belyj, dove c’è un nodo, là stanno i due punti
Trasformare la prosa in poesia senza che cessi di essere prosa è l’intento fondamentale della instancabile sperimentazione di Andrej Belyj, forse estremizzato nella sua fase finale, quando arriva a sottoporre alla metrica interi romanzi, ma di straordinario fascino nei passaggi intermedi, soprattutto nel capolavoro degli anni Dieci, Pietroburgo. L’intento complessivo è sempre congiungere, fondere, in ultima analisi accorpare ciò che la tradizione del metro e del ritmo divide e sposta a nuova riga: per dissimulare, ma anche magnetizzare i punti di cucitura Belyj usa in proporzioni esponenziali e in maniera totalmente anticonvenzionale la punteggiatura, in primo luogo i due punti (assieme al punto e virgola e al trattino lungo, il tiret). L’interpunzione sostituisce e condensa il bianco, lo spazio, il vuoto.
Si potrebbe pensare a una prosa paratattica, ma siamo in realtà agli antipodi. La paratassi usa il punto per dividere davvero. È la semantica che corre unita, ma il ritmo si spezza. È secco, asciutto, fotografico: restando in Russia l’esempio è Šklovskij. In Belyj invece i due punti segmentano, partiscono, cadenzano la logica e, soprattutto, la fruizione, ma il flusso della prosa è ininterrotto, pressante, e con tutte queste incisioni si autoattorce, come un anellide.
Come frasi musicali
Sin dagli esordi Belyj insiste sulla natura musicale della parola poetica, componendo quattro Sinfonie in prosa, numerate come singole frasi musicali, senza però che i due punti svolgano ancora un ruolo distintivo. Questi divengono fulcro della sintassi con il primo romanzo, Il colombo d’argento, e ancor più in Pietroburgo, romanzo di tenebra e fantasmagoria sulla rivoluzione del 1905 fatta implodere in una singola famiglia, quella del senatore Apollon Apollonovic, simbolo di ogni equilibrio e razionalità, ma anche della componente più esornativa del simbolismo, alla cui vita più o meno consapevolmente attenta il figlio, Nikolaj Apollonovic, esteta interiormente scisso simpatizzante dei rivoluzionari.
A un primo, macroscopico livello i due punti sono una mappatura concettuale del parossismo dicotomico con cui è ritratta l’eponima città di Pietro, dei canali, delle nebbie, di ormai bisecolari spettri: non solo il padre e il figlio, le loro generazioni e le loro ideologie, ma anche i palazzi di cubico lustro del centro contro le disordinate e affamate periferie delle isole, l’intrinseco spirito occidentale della città e le larve mongoliche che l’assediano, la simmetria e la logica a cui Pietroburgo è ispirata in stridente contrasto con l’abisso della mente in delirio, popolato di non solo immateriali forze occulte.
Per intendere a pieno il ruolo dei segni d’interpunzione nell’impianto strutturale e espressivo di Pietroburgo occorre prenderne in considerazione la prima, più estesa versione pubblicata nel 1912-13. Successivamente, nel 1922, Belyj riduce di più di un quarto la lunghezza del testo, eliminando, assieme a qualche ridondanza, anche il caratteristico tessuto di ripetizioni, germinazioni, espansioni della materia verbale, all’interno del quale è fondante il ricorso ai due punti.
Il fulcro dell’idioletto
La bellissima versione italiana di Angelo Maria Ripellino (1961, ripubblicata da Adelphi nel 2014) è stata condotta sul testo russo più breve, per cui non può servire a illustrare le nostre riflessioni. Nel complesso Ripellino è molto fedele all’incalzare asintattico dei due punti, che resta comunque consistente: «ciangottava a tal punto, da percepire degli autentici attacchi di persecuzione, che continuavano in sogno: tre incubi ogni notte: Tartari, Giapponesi o altri Orientali gli strizzavano l’occhio». In alcuni casi lo stempera lievemente, scelta più che condivisibile, soprattutto là dove in russo la punteggiatura marca il ritmo, sottolinea una scansione metrica ovviamente non riproducibile in italiano. Negli esempi successivi torneremo al primo testo di Belyj, con una traduzione che prova riprodurre alla lettera la sintassi dell’originale.
Partiamo dal dato numerico: in Pietroburgo ci sono 5271 occorrenze dei due punti; pur trattandosi di un testo molto lungo, significa, in media, 11 per pagina; i punti e virgola sono ancora di più (6701), ma il loro uso, per quanto accentuato e atipico, rispecchia lo standard morfosintattico; i due punti, invece, non lo fanno nella maggioranza dei casi, e sono perciò il fulcro del prodigioso, inconfondibile idioletto del romanzo.
Quando intervengono a evidenziare le strutture metriche sottese alla prosa, la loro funzione è duplice: dire dove mettere una pausa, come farebbero gli a capo, ma più in generale indurre a una lettura rallentata, riflessiva, anche ripetuta, l’unica in grado di cogliere l’insorgere del metro (20-30% dei brani) ma anche la densità, la profondità del tessuto narrativo tutto, del quale i due punti divengono quindi un vademecum, un esaltatore di sapidità.
Un altro tratto complessivo incarnato dai due punti sia concettualmente che per mimesi metatestuale è la specularità, motivo principe del romanzo, presente nelle vesti più varie: sia la madre che l’oggetto del desiderio del protagonista Nikolaj Apollonovic hanno per patronimico Petrovna; la parola cabalistica enfranšiš che tormenta il terrorista Dudkin si materializza per anagramma bifronte nel demoniaco cantante persiano Šišnarfe (e con un cantante straniero era fuggita anche la madre di Nikolaj!); la vezzosa maliarda Sof’ja Petrovna vede in Nikolaj un volto di divina bellezza, che dopo un po’ comincia a sembrarle teso, contorto, come una maschera – non glielo dice, rifiutandone le avances, ma da quel giorno lui le si presenterà agli angoli delle strade in cappa rossa e maschera nera). Questo pervasivo gioco di specchi ha poi un diretto e sistematico eco testuale: singole parole, singoli sintagmi si ripetono ad libitum, scaturendo l’uno dall’altro con un effetto complessivo di srotolamento, ma anche proiettandosi, come puro riflesso, di qua e di là dei due punti: «Erano stesi i viali – là, là: viali distesi: un passante imbrunito non accellerava il passo: il passante imbrunito lanciava intorno languidi sguardi: l’infinità degli edifici! Il passante imbrunito era Nikolaj Apollonovic».
Sospesi sull’abisso
Contro ogni norma i due punti si dispongono in catene lunghissime, cinque-sei in periodi scanditi da pause espressive, gradinature logiche l’una premessa dell’altra, stacchi che vogliono unificare. Sono sempre per gli occhi come per la voce, ma in applicazione disgiunta, e soggettiva. Plasmano con autorevolezza lo spazio peristaltico e quasi antropomorfo del testo: ad esempio, quando Dudkin esce sul pianerottolo di casa fracassato in una notte di delirio onirico dal Cavaliere di bronzo puškiniano, il lettore grazie ai due punti si trova «letteralmente» sospeso sull’abisso.
Dove c’è un nodo, sempre ci sono due punti. Le frasi cruciali del testo sono segmentate tre-quattro volte: «Per un istante tutto per Nikolaj si è fatto trasparente: il suo destino in un’illuminazione: sì, doveva farlo; e, sì – era perduto». Ma più di tutte caratteristica, più di tutte rilevante è una funzione che potremmo definire cardiotonica: i due punti regolano le pulsazioni del testo, ne registrano gli equilibri più sottili, e aprono come una porta per un livello di intimità che di solito la prosa non registra; vanno al cuore della frase, o ne stendono un’ombra, un’enclitica, un’appendice essenziale. Al netto della resa italiana, un po’ quest’effetto: «Ecco. Intanto che parlava con Stëpa continuava a sembrargli che dietro la porta fossero in attesa: la più recondita intimità».
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