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Blues e femminismo nero, oltre i pregiudizi e il razzismoPer la serata inaugurale della sua 32esima stagione, a Le Kremlin-Bicêtre, Sons d’hiver ha scelto come filo conduttore Chicago. Dedicata agli sviluppi del jazz e alle fusioni creative di culture e di ritmi, Sons d’hiver è una manifestazione che si svolge in centri della Val de Marne, o in spazi della capitale a ridosso dei limiti verso la Val de Marne, dipartimento – che sostiene la rassegna – con cui Parigi confina a sud e a est. Nella bella sala dell’Espace Culturel André Malraux, l’apertura è stata affidata a Damon Locks, elettronica, campionamenti, voce, con il suo Black Monument Ensemble. Locks è un artista visivo, performer, musicista di Chicago, apprezzato anche nelle file della Exploding Star Orchestra di Rob Mazurek. Se non abbondano i monumenti eretti in onore di figure di afroamericani, i veri monumenti dei neroamericani sono però le loro musiche, le loro voci, le loro danze: questo il concetto. Per quanto i due album pubblicati nel 2019 e 2021 dalla International Anthem, etichetta di Chicago oggi di riferimento per nuove tendenze, abbiano riscosso molto consenso, anche ad una seconda prova (avevamo già ascoltato Locks con la sua compagine in agosto a Lisbona) non ci è parso che a questa valenza identitaria si accompagni una adeguata dose di creatività.

PUR SU UNA BASE in sé anche molto accattivante, con la batteria elastica di Dana Hall che tiene un andamento vuoi hip hop, vuoi funky, il colore delle percussioni, congas e batà, di Arif Smith, le pulsazioni di basso date dall’elettronica, e spezzoni di parlato ed elementi musicali campionati, la proposta dell’Ensemble è però imperniata su tre voci femminili (Monique Golding, Tremaine Parker, Erica Rene), utilizzate come coro, con spazi solistici ridottissimi. Soluzione piuttosto rigida, statica, a cui si aggiunge, su un’impronta che Sons d’hiver ha definito «post-gospel», il tono monocorde dei brani e degli arrangiamenti vocali. Gli interventi del clarinetto di Angel Bat Dawid, musicista e strumentista alquanto sopravvalutata, risultano piuttosto estrinseci. Amina Claudine Myers è venuta in Europa forse soprattutto negli anni ottanta: oggi – e già da tempo – vederla da questa parte dell’Atlantico è una vera rarità.È arrivata a Chicago nei primi anni sessanta, ha suonato con figure storiche come il sassofonista Gene Ammons, e alla metà del decennio è stata fra i componenti della prima ora della cruciale associazione chicagoana AACM. Ormai è sulla ottantina: entra in scena appoggiandosi ad un bastone, e si sistema con fatica al pianoforte. Inizia con un blues, e viene da pensare che lo suona in maniera liquida, e in effetti il blues parla di fiume, di delfini e di balene. I suoi due accompagnatori si limitano all’inizio a creare un’atmosfera: sono due musicisti straordinari, sensibilissimi, Jerome Harris alla chitarra e al basso – uno dei segreti meglio custoditi della musica afroamericana – e alla batteria Thurman Barker, altro forte protagonista dell’AACM fin dai sessanta. Pianismo e stile vocale essenziale, che scava alla ricerca di emozioni profonde

È UN PO’ COME ascoltare una Nina Simone – anche Claudine Myers all’inIzio lavorò in un locale come vocalist accompagnandosi al piano – e un po’ la ricorda nel modo di cantare e nel timbro, ma una Nina Simone senza il problema di stare dentro una precisa forma di canzone: è un blues aperto, libero, sostenuto da un pianismo intenso, avvolgente, influenzato dal gospel, anche molto elegante, ma più proiezione di stati d’animo, emotivo, che ricerca formale. Passa all’organo Hammond, e ci sono pochi stilemi organistici, è essenziale, un’essenzialità che scava. Il canto è scarno, diventa invocazione, pare un inquieto rituale in una lingua misteriosa. In tutto il concerto non c’è l’ombra di una banalità, e c’è una magia che non capita tutti i giorni. Viene richiamata per più di un bis: torna al piano e suona un brano assorto, con estrema libertà e con una profondità che viene da pensare ad un Paul Bley di mezzo secolo fa. Il Black Monument Ensemble è stato applaudito con simpatia, ma è confortante che il pubblico dimostri per Amina Myers tutto un altro calore e affetto: perché lei sì, è davvero un monumento.