Amina Claudine Myers, l’incanto sospeso di un dolente blues
Festival L’artista americana protagonista nella serata inaugurale della 32esima stagione di Sons d’hiver
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Blues e femminismo nero, oltre i pregiudizi e il razzismoPUR SU UNA BASE in sé anche molto accattivante, con la batteria elastica di Dana Hall che tiene un andamento vuoi hip hop, vuoi funky, il colore delle percussioni, congas e batà, di Arif Smith, le pulsazioni di basso date dall’elettronica, e spezzoni di parlato ed elementi musicali campionati, la proposta dell’Ensemble è però imperniata su tre voci femminili (Monique Golding, Tremaine Parker, Erica Rene), utilizzate come coro, con spazi solistici ridottissimi. Soluzione piuttosto rigida, statica, a cui si aggiunge, su un’impronta che Sons d’hiver ha definito «post-gospel», il tono monocorde dei brani e degli arrangiamenti vocali. Gli interventi del clarinetto di Angel Bat Dawid, musicista e strumentista alquanto sopravvalutata, risultano piuttosto estrinseci. Amina Claudine Myers è venuta in Europa forse soprattutto negli anni ottanta: oggi – e già da tempo – vederla da questa parte dell’Atlantico è una vera rarità.È arrivata a Chicago nei primi anni sessanta, ha suonato con figure storiche come il sassofonista Gene Ammons, e alla metà del decennio è stata fra i componenti della prima ora della cruciale associazione chicagoana AACM. Ormai è sulla ottantina: entra in scena appoggiandosi ad un bastone, e si sistema con fatica al pianoforte. Inizia con un blues, e viene da pensare che lo suona in maniera liquida, e in effetti il blues parla di fiume, di delfini e di balene. I suoi due accompagnatori si limitano all’inizio a creare un’atmosfera: sono due musicisti straordinari, sensibilissimi, Jerome Harris alla chitarra e al basso – uno dei segreti meglio custoditi della musica afroamericana – e alla batteria Thurman Barker, altro forte protagonista dell’AACM fin dai sessanta.
Pianismo e stile vocale essenziale, che scava alla ricerca di emozioni profonde
È UN PO’ COME ascoltare una Nina Simone – anche Claudine Myers all’inIzio lavorò in un locale come vocalist accompagnandosi al piano – e un po’ la ricorda nel modo di cantare e nel timbro, ma una Nina Simone senza il problema di stare dentro una precisa forma di canzone: è un blues aperto, libero, sostenuto da un pianismo intenso, avvolgente, influenzato dal gospel, anche molto elegante, ma più proiezione di stati d’animo, emotivo, che ricerca formale. Passa all’organo Hammond, e ci sono pochi stilemi organistici, è essenziale, un’essenzialità che scava. Il canto è scarno, diventa invocazione, pare un inquieto rituale in una lingua misteriosa. In tutto il concerto non c’è l’ombra di una banalità, e c’è una magia che non capita tutti i giorni. Viene richiamata per più di un bis: torna al piano e suona un brano assorto, con estrema libertà e con una profondità che viene da pensare ad un Paul Bley di mezzo secolo fa. Il Black Monument Ensemble è stato applaudito con simpatia, ma è confortante che il pubblico dimostri per Amina Myers tutto un altro calore e affetto: perché lei sì, è davvero un monumento.
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