Politica

Almaviva, lo scaricabarile di Calenda

Almaviva, lo scaricabarile di CalendaCarlo Calenda

"Le Rsu di Roma non hanno firmato e a questo punto non c'è alternativa ai licenziamenti", dice il ministro dello sviluppo economico. Che tenta di far ricadere sui delegati la responsabilità di una trattativa fallimentare. Nel frattempo Gentiloni promette impegno per il lavoro al sud, e il ministro del lavoro rischia di cadere per le frasi sui "cervelli in fuga"

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 23 dicembre 2016

«A questo punto non ci sono alternative al licenziamento». Quando un ministro – peraltro tra i più importanti, peraltro in ulteriore ascesa – chiude con queste parole una trattativa durata sei mesi, seppellisce il timido entusiasmo della sua vice che nella notte aveva celebrato il raggiungimento di una «intesa transitoria per evitare i licenziamenti». I licenziamenti ci saranno, immediati, per i due terzi dei lavoratori coinvolti: 1.666. Per gli altri c’è un rinvio di tre mesi che pagherà lo stato con la cassa integrazione a scalare. Il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda e la sua vice ministra Teresa Bellanova hanno evidentemente fallito. Ma lo scaricabarile è cominciato.
I responsabili, anzi gli «irresponsabili» accusati di aver tenuto fede al mandato dei lavoratori, sarebbero i rappresentanti sindacali romani. Così il governo e il medesimo ministro Calenda possono, nelle stesse ore, spiegare di «aver fatto di tutto, in buona fede» e persino rilanciare l’impegno per l’occupazione.

«Moltiplicheremo gli sforzi per l’occupazione, la priorità è il Mezzogiorno – ha detto ieri il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, annunciando per il Consiglio dei ministri di oggi un pacchetto di misure per il Sud -, lo stiamo già facendo da Alitalia ad Almaviva». Sono due delle situazioni più gravi e sono anche tra loro connesse, perché proprio per tagliare i costi delle committenze di Alitalia, Almaviva sta spostando in Romania i call center che forniscono l’assistenza ai clienti della compagnia aerea. «Per quanto ci è dato sapere è stato lo stesso presidente del Consiglio, oltre al ministro Calenda – racconta la Cgil in un comunicato – a spingere sull’azienda per posticipare i licenziamenti collettivi al 31 marzo». Ma le condizioni per questo spostamento sono state pesantissime, impossibili da accettare per i delegati romani. E senza garanzie, tanto che lo stesso Calenda spiega che «l’accordo ci sembrava equilibrato, la Rsu di Roma non l’ha firmato è una scelta legittima ma a questo punto non ci sono alternative al licenziamento, ci dispiace che sia finita così, abbiamo solo guadagnato tempo». Secondo il segretario del Slc-Cgil di Roma (lavoratori della comunicazione) Riccardo Saccone, però, nella notte al ministero dello sviluppo «è accaduta una cosa molto brutta e grave, il governo è venuto meno al suo ruolo di arbitro. Le Rsu di Roma si sono rifiutate di firmare perché il testo parla di licenziamenti e non si è dato il tempo a quelle persone di parlare con i lavoratori».

In parlamento le critiche al governo arrivano solo da Sinistra italiana. «I 1.660 lavoratori Almaviva non avranno un natale felice – dice il deputato Erasmo Palazzotto – ma potranno essere orgogliosi di non aver ceduto a un ricatto: comprimere i loro salari e i loro diritti in nome del profitto di un’azienda che continua a elemosinare fondi pubblici mentre avvia le procedura di delocalizzazione in Romania». «Il governo si è limitato a fare il notaio della distruzione del lavoro – aggiunge Stefano Fassina – mentre durante i lunghi mesi della trattativa avrebbe dovuto introdurre il vincolo della territorialità del servizio, anche in infrazione di un’insostenibile disciplina dell’Unione europea. Si sarebbero dovute eliminare le gare al massimo ribasso e l’aggiramento delle clausole sociali».

Questa pesantissima vicenda si compie – a meno di difficili riaperture per i lavoratori romani e nell’attesa di vedere come andranno le trattative per un contratto in deroga sui diritti e sul salario a Napoli – mentre il ministro del lavoro del governo Gentiloni è anche lui in stato di precarietà. Non c’è alcuna garanzia che Giuliano Poletti passi indenne il voto segreto sulla mozione di sfiducia presentata dalla gran parte delle opposizioni: leghisti, grillini, Sinistra italiana, Fratelli d’Italia. Manca Forza Italia, e l’atteggiamento morbido del partito di Berlusconi – del resto impegnatissimo nel soccorso a Gentiloni – è l’unica buona notizia per il ministro. Le sue parole sugli emigrati all’estero – «questo paese non soffrirà a non averli più fra i piedi» – sono talmente impopolari da rischiare di coalizzare una maggioranza di voti favorevoli alla sfiducia. Anche la minoranza Pd non esclude di voltargli le spalle, legando però la questione alla richiesta di cambiare le norme sui voucher. Cosa che il governo può fare, anzi deve fare per evitare il referendum della Cgil. L’altra fortuna di Poletti è che il voto sulla sfiducia è ancora lontano, ci sarà a metà gennaio. Lui nel frattempo può cercare di restare in silenzio.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento