Se il grado di civiltà di un paese si misura dalla condizione delle sue carceri, la fotografia di Israele che emerge dal trattamento dei detenuti palestinesi è a dir poco sconcertante. «I loro diritti erano violati sistematicamente anche prima di questa guerra, ma la situazione è peggiorata», racconta Oneg Ben Dror, attivista ebrea della ong Physicians for human rights ed esperta della condizione dei prigionieri politici nelle carceri di Tel Aviv. La incontriamo a Roma, nella sede di Antigone.

Dal 7 ottobre le autorità israeliane hanno arrestato migliaia di palestinesi in Cisgiordania. Come è cambiata la vita nelle prigioni?

I diritti dei palestinesi nelle carceri israeliane sono stati violati sistematicamente anche prima di questa guerra. Le persone imprigionate erano circa 15mila, di cui 6mila palestinesi classificati come pericolosi. Adesso il numero è quasi raddoppiato. Un altro esempio: nell’estate 2023 c’erano 1.200 persone in detenzione amministrativa, il numero più alto negli ultimi sette anni. Dopo sette mesi di offensiva militare sono 3.500. Contro di loro non ci sono accuse formali. Hanno possibilità di difesa estremamente ridotte. Il ministro della sicurezza Ben Gvir è responsabile delle prigioni e ha fatto tutto ciò che poteva per rendere insostenibile la condizione dei palestinesi. È come se all’ombra del massacro di Gaza la guerra abbia giustificato una politica di vendetta.

La vostra associazione è in prima linea nel denunciare le condizioni di detenzione nel centro militare di Sde Teiman, dove sono detenuti molti dei 3-4mila palestinesi arrestati a Gaza.

Prima della guerra i palestinesi venivano arrestati dall’esercito e, dopo un paio di giorni, trasferiti nelle prigioni civili. Ora invece i gazawi sono detenuti dall’esercito per mesi. Sde Teiman è il luogo dove avviene la selezione. Le persone possono rimanerci fino a circa 75 giorni, in celle a cielo aperto, ammanettate e bendate tutto il tempo. Non possono sedersi durante il giorno, né muoversi o parlare. Altrimenti subiscono punizioni violente, comprese molestie sessuali. Abbiamo sentito storie terrificanti di soldati che fanno la pipì sui detenuti o gli inseriscono oggetti nel retto. Israele non rende pubblico il numero dei gazawi in detenzione, ma si parla di migliaia di persone. L’Unrwa ne stima circa 3mila. Molti sono prigionieri in centri appositi a Gaza, in basi militari o a Sde Teiman. Siamo al corrente di almeno 900 persone – forse di più – trasferite in questa base militare. La nostra associazione, insieme ad altre, cerca di localizzare i prigionieri, ma molte famiglie di Gaza non conoscono la sorte dei loro cari. Alla Croce rossa è stato proibito ogni accesso ai centri di detenzione fin dall’inizio della guerra. Di recente è stata pubblicata la notizia che l’accesso potrebbe essere concesso a ufficiali britannici. Così quando abbiamo fatto appello in tribunale perché la Croce rossa possa entrare nei centri, ci hanno risposto che i controlli sarebbero stati affidati ai britannici. Probabilmente perché il Regno unito ha minacciato di interrompere la fornitura di armi a Israele se questo avesse continuato a negare l’accesso alle strutture. Comunque quegli ufficiali non si sono mai palesati.

Avete denunciato abusi sessuali contro i prigionieri palestinesi, aumentati dopo il 7 ottobre.

In Israele non c’è una legge contro la tortura. Una sentenza del 1999 la aveva in qualche modo proibita, ma consentiva delle deroghe ad agenzie di sicurezza come lo Shin Bet, che possono condurre interrogatori anche servendosi della violenza fisica se la persona in questione è considerata una “bomba a orologeria”. Una concezione che le autorità israeliane estendono a tutti i palestinesi. Dopo il 7 ottobre i detenuti sono denudati appena entrano in prigione. Online ci sono video di persone lasciate in mutande per giorni. Oltre ai casi di cui ho già parlato, abbiamo ricevuto testimonianze di prigionieri nudi legati gli uni agli altri nei bagni. In una dichiarazione raccolta dall’Unrwa una prigioniera tornata in libertà ha detto che i soldati le hanno tolto l’hijab e l’hanno palpeggiata.

Il vostro lavoro è criminalizzato in Israele?

A ottobre c’è stata un’udienza alla Knesset sul sovraffollamento delle prigioni e la condizione dei palestinesi. Dopo essere intervenuta in favore dei loro diritti ho ricevuto per mesi messaggi di minaccia. Ma non siamo noi il centro della storia, viviamo comunque una condizione privilegiata. Il livello di criminalizzazione è senza precedenti: è quasi impossibile postare sui social media, i docenti universitari sono sottoposti a interrogatorio. Come Nadera Shalhoub-Kevorkian della Hebrew University, arrestata e interrogata per aver parlato di genocidio.

Cambiare il primo ministro sarà sufficiente a porre fine a questa situazione?

Non credo.

(ha collaborato Giovanna Branca)