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All’ombra dei nostri vessilli non ritroveremo la credibilità

C'è vita a sinistra Lavorare per ricomporre la nostra base e abbandonare ogni acredine nei confronti dell’«altro». Di errori ne abbiamo commessi tutti tanti

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 18 settembre 2015

Norma Rangeri ha promosso un importante dibattito a partire da una suggestione: «C’è vita a sinistra?» A giudicare dal numero di sigle, partiti e associazioni esistenti verrebbe da rispondere che ce n’è anche troppa ed invece proprio questa frammentazione, della quale in qualche misura siamo tutti responsabili, non è altro che la fotografia del fallimento. Speriamo che la positiva accelerazione che sembra essere stata impressa ad un processo di riunificazione, prosegua con determinazione. Noi certamente lavoreremo in quella direzione.
Questa condizione della sinistra italiana è un caso quasi unico nel panorama internazionale. Ci sono sicuramente limiti soggettivi e ragioni oggettive che contribuiscono a renderci inaccessibile un vastissimo spazio politico potenziale a sinistra del Pd. La fase costituente che sembra finalmente aprirsi non potrà ignorare quei limiti. Dovremo essere aperti, inclusivi e capaci di discutere senza rete, né tabù, di contenuti, referenti sociali e modelli organizzativi di un soggetto politico della sinistra nel nostro paese. Federazioni, alleanze o cartelli, all’interno dei quali ogni soggetto continui a coltivare il proprio orticello, non appassionano più nessuno perché, giustamente, trasmettono l’idea di un’unità strumentale finalizzata all’autotutela del ceto politico, di partito o di movimento, più che quella di una grande operazione di respiro strategico.

In ogni modo prima, o quantomeno contestualmente al dibattito sul contenitore, è necessario affrontare il nodo del contenuto. L’egemonia politica sociale e culturale del neo-liberismo ha macinato quasi indisturbata negli ultimi 25 anni. Ad essere frammentati e divisi non sono solo partiti e movimenti a sinistra, ma soprattutto chi dovrebbe rappresentarne la base sociale.

Una delle condizioni per garantire stabilità al progetto di riunificazione e innovazione della sinistra politica nel nostro paese, è quella di provare a ricostruirne il blocco sociale, consapevoli di quanto esso si presenti oggi con articolazioni diverse rispetto al passato. Le attuali formazioni politiche e sociali non hanno più né la credibilità né la forza per farlo da sole: nonostante una crisi senza precedenti e la svolta centrista nel Pd, le «alleanze» presentatesi alle ultime elezioni non hanno intercettato niente di un malcontento che ha invece ingrossato le file del non voto, sconfinando talvolta nel sostegno dato a formazioni di destra, oppure si è orientato verso il Movimento 5 Stelle che è una forza politica troppo spesso sottovalutata nella sua complessità e capacità di attrarre consensi anche a sinistra.

In questo senso la citazione di Foa è quanto mai calzante: possibile che l’evidenza dei continui fallimenti delle organizzazione di sinistra, non abbia scalfito le «certezze» di chi ne è alla guida? Le ultime settimane lascerebbero intravedere una positiva inversione di tendenza, e noi lavoreremo perché questa prospettiva si consolidi. Benché la sfida che abbiamo di fronte riguardi il ripensare a tutto tondo forme organizzative, linguaggi, categorie di analisi, dunque una innovazione vera della politica e delle pratiche, quello dell’unità di ciò che resiste in campo, seppur segnato da enormi limiti, ci pare un passaggio obbligato. Ma in questo passaggio dobbiamo evitare che ciascuno rivendichi primazie, resti all’ombra del proprio vessillo, o non rinunci ad esso. Se così fosse la sinistra italiana si avviterebbe nella voragine dell’ennesimo fallimento.

La frammentazione, la parcellizzazione e la trasformazione del mondo del lavoro è figlia certamente di precisi interessi economici, ma le conseguenze più profonde sono state determinate da ragioni di carattere sociale, culturale e politico. Infatti la precondizione per la sconfitta delle forze organizzate della sinistra (partiti, sindacati, associazioni ecc.) era frantumarne e dividerne la base sociale, invertendone così le priorità: dalla solidarietà sociale si passa alla guerra fra poveri, alla discriminazione e alla xenofobia; dall’unità per l’uguaglianza e la redistribuzione, si approda alla paura di chi sta peggio di te perché potrebbe toglierti il poco che hai. Per dirla con Dario Fo: «Importante non ci badare, guarda indietro chi sta peggio di te».

Che fare quindi?

1) Lavorare alla ricomposizione della nostra base, obiettivo che Landini sta cercando di perseguire attraverso l’importante esperienza della «coalizione sociale», per una rinnovata alleanza fra tutti i soggetti colpiti dalla crisi: uomini e donne lasciati soli ad affrontare le difficoltà, una nuova generazione espropriata del futuro, lavoratori dipendenti, partite Iva, pensionati, studenti, migranti in fuga da condizioni di vita disumane, tutti dentro la galassia della precarietà, ma tutti isolati, distanti se non in conflitto l’uno con l’altro. Unità sociale e politica ma anche culturale, si tratta infatti di connettere i fili di una solidarietà e di un senso comune tutti da ricostruire e di svelare, come ha saputo fare Syriza, la natura classista della politica che oggi caratterizza la Comunità Europea, contrastando l’idea che l’austerità ed i tagli allo stato sociale siano una necessità ineluttabile, e non il frutto di una scelta di parte che affama i popoli privandoli della libertà di scelta sui propri destini.

2) Abbandonare ogni supponenza e ogni acredine nei confronti dell’«altro» che sta a sinistra un po’ più o un po’ meno di noi, che è arrivato troppo presto o troppo tardi alle stesse conclusioni. In poche parole, essere umilmente in grado, per una volta, di assumerci tutti e tutte la responsabilità di dire che di errori ne abbiamo commessi moltissimi, ciascuno a casa propria, al punto da aver perso ogni credibilità ed efficacia trasformativa. Ebbene, un nuovo inizio che ci veda finalmente uniti non può che partire anche da questa consapevolezza.

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