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Woody Allen di nuovo sul banco degli imputati

Woody Allen di nuovo sul banco degli imputati

Cinema Dylan Farrow in un’intervista tv accusa ancora il padre adottivo di averla molestata da bambina

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 19 gennaio 2018

La prima a fare dichiarazione di pentimento è stata Greta Gerwig, icona del cinema indie e ora in aria di Oscar con il suo bell’esordio da regista Lady Bird. «Mi pento di avere lavorato insieme a Woody Allen» ha detto qualche giorno fa. Il film in questione era To Rome with Love, certo non tra i più memorabili di Allen regista, ma il rimpianto non aveva a che fare con la scelta artistica. Ciò per cui Gerwig si doleva – ripromettendosi di non farlo mai più – era essere stata «complice» seppure per doveri di set di un perverso molestatore. «È qualcosa a cui ho pensato a lungo e di cui mi preoccupo immensamente. Se allora avessi saputo ciò che so oggi non avrei accettato di recitare in un suo film Ho avuto bisogno di tempo per esprimere il mio stato d’animo su questo».

Le ha fatto eco, qualche giorno dopo, Mira Sorvino in una lettera aperta indirizzata a Dylan Farrow figlia adottiva di Mia e di Woody Allen, nella quale la protagonista di La dea dell’amore (Mighty Aphrodite, 1995, ruolo per cui Sorvino ha vinto l’Oscar come migliore attrice non protagonista) si scusava di avere recitato in un film di Allen – «Capisco da donna e da madre le tue sofferenze (Dylan): trovarti in tutti questi anni di fronte a qualcuno che tutti plaudono ignorando invece la tua voce».

L’elenco si è allungato rapidamente arrivando sino a Timothée Chamelet, protagonista del prossimo film di Allen – A Rainy Day in New York – che ha donato il suo cachet al movimento Time’s Up. La ragione di tutto questo sono le accuse di molestie mosse al regista – oggi ottantaduenne – da Dylan Farrow, la prima volta nel 1992, quando aveva solo sette anni. Le indagini svolte però non portarono a alcuna incriminazione nei confronti di Allen, al più, la ridda di insulti e polemiche feroci tra lui e Farrow nel corso della loro separazione, e dopo la scoperta della sua relazione con Soon-Yi, anche lei figlia adottiva di Farrow divenuta poi la moglie di Allen, suggerivano una «famiglia disturbata».

Oggi trentaduenne, Dylan Farrow ha rilasciato giovedì la sua prima intervista televisiva alla giornalista Gayle King di «Cbs This Morning». Nell’intervista torna su quanto scritto in un articolo per il «New York Times» nel 2014 e recentemente, sull’onda dello scandalo Weinstein, sul «Los Angeles Times», nel quale affermava che il sistema che aveva protetto Harvey Weinstein per decenni «ancora funziona per Woody Allen». Mentre il fondatore di Miramax e tante altre celebrità erano state «scacciate» da Hollywood – scriveva inoltre sul «LA Times» – «Allen ha da poco concluso un accordo di distribuzione milionario con Amazon».

Con Gayle King Farrow ha ripercorso la sua versione dei fatti su quanto sarebbe accaduto il 4 agosto del 1992 – il giorno in cui accusa Allen di averla aggredita sessualmente nella soffitta della casa della madre Mia Farrow nel Connecticut. «Ciò che non capisco – ha detto – è perché questa storia pazzesca per la quale mia madre mi avrebbe fatto il lavaggio del cervello sia più credibile di ciò che ho raccontato sul fatto che mio padre mi ha aggredita».
Alla possibilità, sollevata dall’intervistatrice, che Mia Farrow fosse all’epoca furibonda con Woody Allen, tanto da istruire la figlia su ciò che avrebbe dovuto dire contro il padre, Dylan nega ancora una volta di essere stata «imboccata» : «In ogni momento mia madre mi ha sempre e solo incoraggiata a dire la verità».

A «CBS This Morning», Farrow ha anche discusso la decisione di tornare a parlare pubblicamente della vicenda all’indomani delle decine di accuse contro Weinstein e della nascita di #Me Too: «Tante persone coraggiose hanno deciso di rompere il silenzio contro dei ‘pezzi da novanta’, e ho pensato che fosse importante aggiungere la mia voce alla loro. Perché lotto da tantissimo tempo contro le conseguenze dell’esperienza che ho vissuto, ed è stato fondamentale vedere che questo genere di discorsi si può finalmente fare in pubblico».
Dylan ha poi detto di non essere arrabbiata con le celebrità che ancora recitano nei film di Allen e che lo tengono «in gran considerazione», ma ciononostante li definisce complici: «Dato che in tanti hanno pubblicamente sostenuto il movimento Time’s Up e #Me Too, spero che si rendano conto della loro complicità e che si prendano le loro responsabilità per aver perpetuato la cultura del silenzio nell’industria di cui fanno parte. Ripeto le stesse accuse, inalterate, da oltre vent’anni e sono stata sistematicamente messa a tacere, ignorata e screditata. Se non sanno prendere sul serio le parole di una vittima in che modo pensano di lottare per tutti noi?».

Ieri, come allora, Allen ha replicato a «CBS This Morning» che le indagini affidate a due istituti investigativi specializzati in abusi sessuali avevano concluso che non c’era stata alcuna molestia. Piuttosto propendevano a pensare che la piccola Dylan era stata manipolata dal Mia Farrow per costringerla a sostenere questa versione dei fatti come forma di vendetta nei confronti del marito durante la loro difficilissima separazione. In realtà a gettare di nuovo Allen sul «banco degli imputati» è stato un articolo sul «Washington Post» (sì il The Post spielberghiano) in cui i materiali sui suoi film, donati dal regista stesso alla Princeton University, diventano la prova della sua «ossessione» per le ragazzette. Sceneggiature, note, copioni, Manhattan e Mariel Hemingway che poi mica è un grande scoop, anzi quel film è un classico ormai, va in tv senza divieti. È vero, c’è un quarantenne (siamo nel 1979, Allen aveva 34 anni) che si innamora di una diciottenne, Hemingway, e l’ispirazione sarebbe stata oltre alla musica di Gerswhin la relazione di Allen con Stacey Nelkin, poi coinvolta pure lei nella guerra Allen-Farrow. Ma certo non è un delitto.

Tutto ciò pone molte questioni – siamo vicini agli Oscar e come già dimostrato ai Golden Globe utilizzare il tema delle molestie sembra essere il must per Hollywood. È chiaro che «processare» l’universo poetico di un artista è qualcosa di indecente, le sue fantasie, la finzione non dovrebbero persino nel grado zero della percezione essere confusi con la realtà. Se siamo a questo punto è un affare serio.
L’impressione invece è quella di un diffuso opportunismo e di una malafede che tutto mischia e tutto confonde, e il primo a essere messo in pericolo (serissimo) dalla sequela di accuse, dichiarazioni pro e contro, confusione di piani (vedi il «manifesto» di Catherine Deneuve) è proprio il movimento: #Me Too, Time’s Up e tutto quanto è stato messo in moto come forma di opposizione e di resistenza a un sistema di potere radicato nel profondo, economico, sociale, culturale.
Un passo importante, in qualche modo epocale, che però le contaminazioni con gossip, «caccia alle streghe», fantasmi normativi non aiutano. Al contrario circoscrivono in quella zona di un moralismo oscurantista nella quale, ancora una volta, si cerca di svuotare la parola delle donne del loro significato.

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