Cultura

Alia Trabucco Zerán, dalla stanza sul retro

Alia Trabucco Zerán / foto tratta dal sito di Éditions FraAlia Trabucco Zerán – foto tratta dal sito di Éditions Fra

GEOGRAFIE Parla la scrittrice e saggista cilena a proposito del suo «Pulita» (Sur). «Ho lavorato sulla voce di Estela, collaboratrice domestica, che è diventata protagonista del romanzo. Ho voluto che il personaggio storicamente relegato sullo sfondo venisse in primo piano. Che raccontasse, scegliendo le parole»

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 18 luglio 2024

Estela García, quarant’anni, collaboratrice familiare, si trova a Santiago del Cile per lavorare. Ciò per cui viene pagata è tenere in ordine la casa di una coppia di suoi coetanei in carriera che ben presto hanno una figlia. Si occuperà anche di lei, Estela. Un anno solamente, ne trascorreranno sette. La stanza tutta per sé è sul retro e senza finestre, in un’abitazione signorile il cui solaio ogni tanto è infestato dai topi. Estela è la protagonista di Pulita, l’ultimo intenso romanzo di Alia Trabucco Zerán (Sur, pp. 239, euro 18, traduzione di Gina Maneri).

«In un mio libro precedente, Las Homicidas (2019, ndr) – dice al manifesto la scrittrice cilena – avevo scritto una storia basata sulla vicenda di una collaboratrice domestica che aveva ucciso i figli dei suoi datori di lavoro. A un certo punto, non ero più interessata all’aspetto criminale di quel caso e volevo solo esplorare il suo lavoro e la sua voce. Le domande erano diverse: era possibile scrivere di quella voce in prima persona? Era legittima, plausibile?

Nel suo romanzo, che può essere letto come uno spaccato dei conflitti e delle disuguaglianze di classe, la voce di Estela è centrale. Come ha lavorato al libro e perché?
Per via della voce, appunto, è così che è nato Pulita. Volevo scrivere una storia e la voce di Estela, narratrice e protagonista, è rimasta con me. Non potevo e non volevo lasciarla andare. Una volta capito che stavo scrivendo un romanzo, il lavoro è consistito nel levigare quella voce, portarla il più lontano possibile e riflettere con la stessa dedizione sui silenzi. Perché una voce è anche i suoi silenzi o, in questo caso, i suoi silenziamenti. Questa domanda, la questione della voce, di chi ha il diritto di avere voce, di alzarla e di essere ascoltato, ha attraversato l’intero processo di scrittura.

«Limpia» significa «pulita», eppure non è solo il contrario di «sporca». Indica e significa anche purezza, candore. Ed Estela ha una grazia speciale, nel suo pensiero, nella sua visione del mondo, nel modo in cui trasmette ciò che vede e sente.
I significati sono molteplici. «Pulita» è un aggettivo e un verbo ed è una parola che mi piace molto. Ad esempio: chi dà l’ordine di pulire? Pulire quale sporcizia? E chi è veramente pulita nel romanzo e da cosa? Pulita è anche chiara, trasparente. Limpido è qualcosa senza macchie in un libro che ne è pieno. La parola porta con sé come un segreto, un’altra parola: empia. Una mancanza di misericordia, una forma di trasgressione.

Estela è protagonista ma anche «regista». Voce e occhio si muovono contemporaneamente. Nonostante il suo silenzio, la sua solitudine, si interroga come in un teatro. Ed è anzitutto un teatro della sua coscienza. Anche una lunghissima confessione in cui si rivolge al chi legge o a qualcun altro («cancellate», «scrivetelo da qualche parte», eccetera).
Ho quasi pensato di scrivere un’opera teatrale e infatti il romanzo è stato adattato per il teatro in Cile. La voce è la protagonista e anche gli occhi, lo sguardo. Occhi che vedono, osservano, indagano e allo stesso tempo non sono visti dagli altri. Estela è un’estranea, una spia, qualcuno che vede senza essere visto e che parla, spesso senza essere ascoltato. La confessione è stata invece un pretesto: generare un intrigo intorno alla morte di una ragazzina e raccontare un’altra storia, quella del suo lavoro e della sua vita. Un falso thriller, per molti versi, in cui la classica struttura del «chi è stato» è presente e lei, Estela, lo sa perfettamente. Si appella agli altri che la ascoltano – e che la leggono – e si fa beffe dell’impazienza di andare avanti o di ritardare, ci sono oltre duecento pagine di ritardi: la morte della ragazzina viene annunciata nella prima pagina, e avviene in un solo paragrafo. Riguardo il resto, c’è il romanzo che non parla di quella fine. Si tratta di Estela quando pulisce il pavimento, quando stira, lava, innaffia, quando taglia una cipolla o è sola, quando ricorda, quando esprime la sua rabbia e la sua solitudine o racconta la sua vita. Questa è la storia e viene ascoltata solo grazie a questa strategia politica.

Estela è il prodotto di ciò che ha vissuto, degli odori, dei sapori, dei colori e della luce del sud, di un luogo a sud diverso da Santiago. Come ha costruito il suo immaginario e che importanza ha nel romanzo?
Questo immaginario, a volte nostalgico e a volte doloroso – fa freddo, è sola, il tempo è inclemente – è il suo serbatoio di soggettività, la sua fonte di tranquillità e il suo orizzonte. Il suo immaginario passa indubbiamente attraverso un preciso paesaggio, tuttavia anche attraverso le parole che lo nominano: ogni albero ha un nome, ogni animale, ogni cibo. C’è un altro legame con il circostante, con la natura, con l’animale. È una conoscenza, una saggezza. La plasma.

Le relazioni tra donne sono centrali e si svolgono a diversi livelli: c’è il rapporto di Estela con la madre, che si guadagna da vivere sventrando salmoni e che, quando Estela era bambina, le ha insegnato a raccogliere le more senza graffiarsi. C’è il rapporto di Estela con Mara, la padrona di casa, in cui il potere distrugge ogni possibilità di attenzione.
Quello di Estela e sua madre è un legame desolato, secondo me, perché c’è un amore duro, un po’ crudo e duro, ma pur sempre amore. Nel caso di Estela e Mara, si tratta di un rapporto tra dipendenti di enorme tensione, tremendamente interessante da esplorare in letteratura (ne ha scritto Laura Marzi nel suo volume Raccontare la cura. Letteratura e realtà a confronto, per Futura editrice, ndr). Tensione di classe e di genere in tutta la sua potenza. C’è intimità senza intimità, c’è bisogno e rabbia, complicità e tensione. La capa, madre e professionista di successo, sempre stressata, controllante, ma anche vulnerabile. Anche un capo lo è. E la ragazzina, forse il personaggio più grigio di tutti: una bambina senza innocenza, sommersa dalle richieste, ma anche tenera e fragile. E tutto questo si svolge tra quattro mura, all’interno di una casa. Mi interessava rivisitare quello spazio come prigione e come teatro, come Egon Wolff in Los invasores o Ibsen in Casa di bambola. Entrare in quella casa, ma non più dallo sguardo dei proprietari, non più dalla porta principale, volevo farlo invece dal soggetto invisibile, dalla stanza sul retro. Lasciare che il personaggio storicamente relegato sullo sfondo venisse in primo piano, che osservasse e raccontasse scegliendo le parole. Infine volevo vedesse cosa accade nella famiglia, con la casa e il suo simulacro di felicità.

Uno spazio importante del romanzo è rappresentato dal rapporto con Julia, la bambina, che non sarebbe ben compreso se non avesse una terza parte: la Yani, una cagna. C’è in questo triangolo, tra Estela Julia e Yani, un tratto profondamente doloroso tra creature vulnerabili. Che conoscono la rabbia, a diversi livelli. E la morte.
Mi interessavano molto entrambe le figure: la ragazzina e la sua disperazione, la cagna e la sua vulnerabilità. Scrivere la violenza di Julia nei confronti di Estela, dei suoi genitori e del suo stesso corpo attraverso piccoli gesti come rosicchiarsi le unghie o rifiutarsi di mangiare. È qualcosa di molto presente nell’infanzia contemporanea. Infanzie dominate dall’ansia e da un’esasperazione molto accentuata. Penso ad altre infanzie veramente mostruose in letteratura, come quelle di Agota Kristof ne Il grande quaderno, e all’incidenza della guerra in questo delirio violento, e poi mi chiedo come influisca sull’infanzia il contesto attuale di neoliberismo scatenato, di distruzione dell’ambiente, di pretese di successo e smembramento del tessuto sociale. Forse Julia, la bambina, è un riflesso di tutto questo. Quanto a Yany, è la vulnerabilità più pura, nell’immaginario cileno la figura del «quiltro» è molto interessante. La rabbia, in ogni legame, è un elemento centrale.

Nel suo primo romanzo, «La sottrazione», la morte è altrettanto presente e si intreccia con la storia cilena, il ruolo della memoria è anche un dispositivo collettivo. In «Pulita» sono invece i ricordi dei corpi, umani e non umani, oggetti compresi, a indicare un possibile antidoto alla fine.
Ho pensato molto alla relazione tra Estela e gli oggetti. Ho letto molto Bachelard per pensare a una fenomenologia di questi oggetti e a un significato che andasse oltre l’ovvio. In un certo senso, Estela si lega ad altre dimensioni del mondo, a quella che lei chiama «irrealtà», per sfuggire alla realtà e forse anche per affrontare la morte. E sì, la morte è centrale: quella della bambina, quella di un fico, la stessa morte in vita. È, naturalmente, un tema che ho ripreso in ogni libro.

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