Nell’elenco dei libri di testo che all’inizio dell’anno scolastico gli studenti della scuola media dovevano procurarsi non mancava un dizionario di mitologia. Vi si imparava molto riguardo alla condizione umana, alla fragilità della vita ed alla grandezza d’animo che fa la dignità di noi mortali.

Conservo da allora quel mio scolastico Dizionario di Mitologia Classica e di Storia greca e romana compilato da Francesco Perri pubblicato da Garzanti (ristampa della quinta edizione, 1953). Sulla copertina grigia è riprodotta un’incisione settecentesca che mostra Giove tonitruante a cavallo di pesanti nuvoloni neri.

Leva in alto la destra donde scaglia i fulmini e l’aquila, le penne arruffate, gli è accosto da un lato. Dall’altro lato, a sinistra, da una sorta di cornucopia si riversa copioso lo scroscio d’una pioggia fitta mentre, dai quattro canti, i venti spirano impetuosi, soffiati da possenti gote. Veleggia in basso, le grandi ali dispiegate, la folta, fluente barba bianca, il Tempo. Impugna la falce riservata esclusivamente a noi mortali. A noi che siam qui, sulla terra, zuppi e infreddoliti, impotenti sotto le raffiche della divina bufera che ci travolge.

Si intraprendeva nelle tre classi medie lo studio del latino, e il volume di storia della prima media trattava della storia antica. E si leggeva l’Iliade nella versione di Vincenzo Monti e già quel verso che apre il poema («Cantami, o Diva, del Pelìde Achille») esigeva l’ausilio del vocabolarietto: tre nomi da cercare: Diva, Pelìde, Achille.

La redazione consiglia:
«Lohengrin», mitologia e giovinezza romantica

Come diligentemente avrò fatto allora, torno a leggervi oggi che Diva in Omero sta per Musa. Omero infatti ignora la distinzione delle nove Muse e le attribuzioni di ciascuna, come poi stabilirono poeti posteriori. Poi leggo che Pelìde non è un nome proprio, ma un patronimico: significa ‘il figlio di Peleo’. Vado alla voce Peleo: «re di Tessaglia, l’unico dei mortali che sposò una dea».

Da lei, Teti, «nereide di suprema bellezza», nacque Achille «che per la sua gloria e le sue imprese avrebbe oscurato il nome del padre». Il mio dizionario ad Achille dedica due colonne e mezzo. Prendono avvio da una notazione succinta quanto inevitabile: «Eroe greco, il più forte dei guerrieri che combatterono contro Troia». Quasi un invito alla lettura di Omero, che tutto, guidato dalla Musa, mi avrebbe raccontato.

Sui banchi della prima media veniva insegnato a noi (avevamo dieci anni), come nelle figure e nei racconti della mitologia fossero riposte verità e richiamati accadimenti ‘storici’ sui quali era bene ragionare e riflettere e farne tesoro. Insomma, la mitologia non si restringe a un tratto della tradizione solo culturale, ma consegue acquisizioni di consapevolezza e di coscienza da conoscere e da custodire, preziose e indispensabili per la nostra vita.

Questo lungo, forse troppo, e, forse troppo scontato richiamo alla ‘verità storica’ del mito che ho mantenuto entro i limiti di un livello rudimentale adatto ai principianti, mi pare opportuno affidare all’attuale ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Egli parla d’un ponte sullo Stretto di Messina. Taccio una data – 1908 – e invece riporto senza ulteriore commento tre passi di antichi autori, tra i numerosi tramandati.

Omero, nel dodicesimo dell’Odissea: Scilla, «mostro pauroso, baratro orribile, è un’immortale sciagura, tremenda, atroce, selvaggia, che non si può vincere, non c’è riparo, la cosa migliore è fuggire». Cariddi «l’acqua livida assorbe e vomita paurosamente. Non ci si salva alla rovina».

Nel terzo dell’Eneide Virgilio scrive: «Codesti luoghi, sconvolti un tempo dalla violenza d’una vasta rovina – tanto può trasformare la lunga vetustà del tempo -, dicono che si spezzarono in due, mentre costituivano un’unica terra; irruppe nel mezzo il mare, divise con le onde il fianco esperio dal siculo, e attraversò con angusto fluire i campi e le città separate dalla riva».

Ovidio, nel settimo delle Metamorfosi: «Ma non si racconta di non so quali montagne che in mezzo al mare si scontrano, di Cariddi, terrore delle navi, che ora ingoia e poi rigetta i flutti, di Scilla, quel mostro rapace che fra cani feroci riempie di latrati il mare di Sicilia?».