La notizia è che la Serie A il giocattolone incerottato pieno di debiti e dagli impianti (vedi stadi) vetusti, interessi ancora. Almeno a imprenditori, gruppi finanziari che arrivano da Stati uniti, Indonesia, Russia, India. In pochi giorni, portati a casa il Cagliari e il Bari. Con una cordata russa che a suon di rubli avrebbe messo sotto tiro la Lazio di Claudio Lotito. Ma allora il nostro calcio è malato o no? Di sicuro ha ancora molta strada da percorrere per recuperare terreno con gli altri tornei d’Europa. C’è un deserto che divide il nostro movimento da Premier League e Bundesliga su stadi di proprietà dei club – la legge Melandri ha prodotto poco, mentre i club inglesi, per esempio sanno come dividere per bene la torta dei diritti televisivi e sfruttare il brand. Punti dolenti nella vita quotidiana dei club che si riflettono sulla scarsa competitività delle italiane nelle Coppe europee.

E i numeri pubblicati dalla rivista Forbes nelle scorse settimane su introiti e valore del marchio dei club mondiali (avanti Real Madrid e Barcellona, assieme a Bayern Monaco e inglesi, con italiane a rincorrere) non fanno che confermare quanto sapeva Massimo Cellino che ha traslocato l’attività in direzione Leeds, Inghilterra. Venduto il Cagliari dopo 22 anni a un fondo a stelle e strisce rappresentato dal manager italiano Luca Silvestrone e dal progettista statunitense Dan Meis (costruirà anche lo stadio della Roma), Cellino invece ha acquisito il 75% delle quote azionarie del Leeds, uno dei club con più storia nel Regno Unito, sprofondato nelle serie minori. Con gli inglesi, tifosi del club compresi, che nulla hanno fatto per oscurare il loro disappunto sul suo arrivo, per i problemi con la giustizia avuti in passato. L’ex patron del Cagliari ha fatto intendere che il Leeds sarà per lui come una Ferrari, mentre il Cagliari è stata un’utilitaria su cui montare pezzi-calciatori a poco prezzo (Radja Nainggolan alla Roma l’ultimo caso), per poi smontarli e rivenderli in cambio di assegni a vari zeri. Con le ultime stagioni a tinte tragicocomiche soprattutto per la questione stadio. Isolani dislocati a Trieste, prima e poi nella vicina Is Arenas per una sola stagione, per poi tornare al Sant’Elia, rigorosamente vuoto.

In pratica il Cagliari ha giocato due stagioni senza tifosi. Cellino ha detto che il sistema calcio in Italia gli ha impedito di crescere. In attesa dei suoi risultati Oltremanica, allora perché questo interesse per le società italiane? Cosa spinge robusti gruppi finanziari, fondi d’investimento a rischiare milioni di euro in un Paese dalla fiscalità così alta sul costo del lavoro?

Forse, i margini di crescita, la ciclicità del calcio che presto potrebbe ricollocare l’Italia dove era in pieni anni Novanta, tra finali di Champions League e Coppe Uefa sollevate al cielo. Assieme all’indubbia visibilità che regala il pallone italiano. Anche all’estero, dove domina la Premier League. Questo spiegherebbe l’acquisizione del Bari, pochi giorni dopo quella del Cagliari: il gruppo – ancora ignoto, mentre i tifosi baresi festeggiano in piazza – che sta dietro all’ex arbitro Gianluca Paparesta, capace di staccare un assegno di 4 milioni di euro per rilevare il club, conta investitori indiani, russi e probabilmente irlandesi. Transazione che ha decretato la fine della lunga era di Vincenzo Matarrese, fratello di Antonio, potente del calcio italiano ed ex presidente della Figc. Non finisce qui. Nelle serie minori al Monza è finito l’anno scorso l’imprenditore anglo-brasiliano Armstrong Emery. Mentre a Venezia – dopo la fine dell’era Zamparini e il tracollo in Lega Pro – da tre anni c’è il russo Yuri Korablin. Senza dimenticare che il restyling delle poltrone presidenziali ha toccato anche big del nostro movimento.

Erick Thohir si è assunto l’onere di riportare in auge l’Inter di Massimo Moratti dopo alcune stagioni anonime, promettendo di renderla un super brand a Oriente. E il primo passo è stato l’accordo decennale con Nike e l’apertura di store in Cina. Prima dell’Inter è finita in mani estere la Roma. Da Thomas Di Benedetto a James Pallotta, il gruppo statunitense che ha rilevato la società dopo un paio di stagioni negative attraverso investimenti sui giovani, con l’abile strategia di mercato di Walter Sabatini, ha imboccato la strada migliore, sfiorando lo scudetto, riaffacciandosi alla Champions League. Soprattutto, chiudendo l’accordo per un nuovo stadio targato Roma. È questo il «segreto di Pulcinella» per moltiplicare ricavi dei club, fonte di reddito inesauribile e permettere mercato di qualità e conti in ordine.

Lo sa bene Aurelio De Laurentiis, da anni in lotta con le istituzioni cittadine per giungere alla concessione del San Paolo alla società azzurra. Almeno in Inghilterra così funziona. Il club giallorosso ha pure chiuso un ricco accordo con la Nike, arricchito con la Wolkswagen il portfolio degli sponsor. Sino al lancio del marchio Roma sul mercato Usa, varato col totem Francesco Totti in copertina.

Certo, si tratta di altri piani industriali di impatto diverso rispetto a quelli di alcuni ricconi che hanno invaso con euro, petroldollari la Premier League prima, la Ligue1 da un paio di anni. Prima il miliardario americano Malcom Glazer, morto pochi giorni fa, che nel 2005 acquisiva il Manchester United in piena era Ferguson, tra titoli nazionali e Coppe. Due anni prima, il petroliere russo Roman Abramovich metteva le mani sul Chelsea, che in dieci anni ha messo assieme tutto quello che c’era da vincere. Poi è arrivato il Manchester City dello sceicco Bin Zayed, sino al Paris Saint Germain di Al Thani e il Monaco del milionario russo Dmitri Rybolovlev, autore di un colpo da 60 milioni di dollari cash per acquistare l’attaccante colombiano Radamel Falcao. Altre cifre per il calcio italiano, la cui gestione appare vecchia nella conduzione e malgestita mentre il pallone mondiale disegna altre traiettorie. Ma stranamente tira ancora. Eccome.